Il Signore della Gloria

Giovanni Ferrero

La crisi della modernità


La crisi che la modernità operò nel secolo XVII nella coscienza europea è presente ancora oggi nelle sue estreme conseguenze e ciò che ci appare come indiscutibile è soltanto l'effetto di un'oblio che ad ogni generazione si è reso sempre più incolmabile, sicchè per noi il rapporto con il passato è confinato ormai nei musei e nelle biblioteche. E', infatti, costitutiva della modernità non solo la rottura con le tradizioni passate, ma l' incapacità a cogliere quella radice da cui si è sviluppato l'albero della tradizione o gli alberi delle diverse tradizioni, per il semplice fatto che al nostro orizzonte è nascosto il terreno nel quale è posta tale radice. E ciò sia al credente che al non-credente. Questo significa che una rottura epistemologica esiste tra noi e il passato e che la più avvertita metodologia storica non può colmare senza una riflessione di tipo categoriale che coinvolga il rapporto dello storico a ciò che egli persegue nella sua ricerca. Raramente, infatti, si trova l'ammissione che una qualche espressione è letteralmente incomprensibile, l'ammisione cioè che ci sfugge il contesto di informazioni necessarie entro cui essa risulterebbe intelligibile anche a noi, senza operare perciò stesso una riduzione ad una implicita pre-comprensione. L'incoerenza denunciata a proposito del racconto biblico della creazione, secondo il quale la luce è creata al primo giorno, mentre il sole al quarto dipende proprio dall'accettazione a-critica delle conseguenze della rottura epistemologica operata nell'epoca della modernità. Se è vero che la cultura di quel racconto non può essere accostata a quella del Timeo di Platone, né tantomeno a quella dei Principia mathematica di I.Newton, tuttavia si rimane nell'area delle categorie elaborate dalla modernità, quando si risponde ancor oggi, affermandolo semplicemente, che l'intento dello scrittore sacro non era scientifico ma teologico-religioso. Certo,non era scientifico secondo quel paradigma del sapere dimostrativo elaborato dai Greci e ripreso da Galileo, ma questo non implica che per accedere alla comprensione di quel racconto non sia necessaria proprio la conoscenza di un linguaggio relativo a quel gran libro della natura, che per Galileo era trascritto nei termini della tradizione matematica e astronomica greca (Euclide, Archimede,Tolomeo), che invece per gli antichi della cultura arcaica era trascritto nei termini della tradizione della sophia,della sapienza, sorta, elaborata e comunicata nel contesto delle civiltà orali, pre-letterarie. La diffusione della scrittura alfabetica fonetica, diversa dalla scrittura sillabica della lingua, come sono quelle semitiche, opera,come processo formativo dell'individuo, una rottura nell'universo culturale e nessun filologismo storico metodologico può recuperare quella rottura. La cosiddetta semantica biblica contrapposta a quella greca dipende non tanto da una originaria differenza tra lo spirito semitico e quello indoeuropeo, ma da una diversa tecnologia nella comunicazione: l'esperienza della scrittura e della lettura, come processo formativo colto genera individui formati alla riflessione, mentre la comunicazione prevalentemente orale rafforza la comunità e l'appartenenza ad essa e all'etnos. Così la traduzione in greco dei testi della propria tradizione religiosa fatta dalla comunità giudaica ad Alessandria ha introdotto un principio di lettura e di scrittura antitetico a quello tradizionale con conseguenze incalcolate e impreviste. La tragedia della ricerca storico-critica dell'Europa moderna fu, allora, quella di accettare, inconsapevolmente, l'epistemologia sottesa alla storia della scienza greca e moderna, in base alla quale la forma della comunicazione del sapere scientifico, sorta con l'esercizio della scrittura alfabetica, era costitutiva del sapere stesso, e non la forma storica del discorso razionale umano in un contesto di comunicazione possibile. Se il sapere scientifico di tipo matematico-astronomico è solo quello che si trova esemplificato nei trattati ellenistici, nella tradizione araba e nella ripresa copernicana e galileiana, lo storico delle culture arcaiche dovrà ricorrere, allora, ad una competenza, altra e diversa da quella scientifica, per comprendere i racconti antichi delle varie culture, cogliendone solo e la dimensione antropologica e quella linguistica, slegate però da quel quadro cosmologico di riferimento, da quel sapere, che ha costituito lo spazio per l'invenzione del codice del racconto stesso. Questa conseguenza fa sì che generalmente si pensa essere irrilevante per la comprensione teologica sapere o non sapere se il quadro culturale del racconto sacerdotale della creazione abbia avuto per i contemporanei una dimensione analoga a quella scientifica moderna, portati, come siamo, a liquidare la questione, sia da parte del credente che dichiarava, sic et simpliciter verità rivelata quel racconto sia da parte dello storico che vi vede unicamente l'espressione di una credenza che la scienza moderna di Galileo e di Newton ha mostrato anacronistica e superata, oggetto tutt'al più di studio specialistico. Se rivolgiamo, ora, lo sguardo ai cosiddetti protovangeli, ai racconti evangelici sulla natività di Gesù, il riferimento al meraviglioso appare certo alla cultura moderna: infatti come non comprendere l'apparizione di angeli, o l'annuncio dell'arcangelo Gabriele, come espressione di una cultura per la quale la dimensione della credenza sostituisce quella della conoscenza? Ma quando si sostiene questa tesi, ricercando tutt'al più altri testi della cosiddetta letteratura intertestamentaria, si soggiace ad un tipico meccanismo di proiezione, in base al quale ciò che non rientra nel proprio quadro viene qualificato come espressione soggettiva altrui o riferimento a dottrine non meglio precisate. Ben inteso, qui non si vuole dire che agli studiosi manca qualcosa che appartiene alla loro competenza storico-critica, ma semplicemente che essi non si interrogano su quello spazio in cui può avvenire l'apparizione degli angeli agli uomini. I maestri della tradizione islamica, che questa domanda si sono posti, designano con l'espressione tecnica 'alam al-mithal, 'alam mithali, proprio la struttura di questo spazio la cui traduzione suona in latino mundus imaginalis, come propone H.Corbin, e non ha alcun parallelo con analoghe espressioni della tradizione occidentale. Ciò significa che i costrutti condivisi all'interno di un paradigma culturale relativo ad una tradizione religiosa hanno una funzione comunicativa che a noi sfugge, come sfuggono a chi non sia specialista i costrutti teorici della fisica contemporanea. La rivoluzione astronomica in occidente ha dissolto la funzione propria dell'angelologia,confinandola al piano delle credenze popolari, legate a pratiche devozionali o al mondo dell'immaginario religioso. La questione non è di poco conto. Infatti nell'annuncio dell'arcangelo Gabriele c'è esplicito il richiamo al regno messianico cui è destinato colui che dovrà nascere da Maria:
Il Signore Dio darà a lui il trono di Davide suo padre; e regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà fine (Lc.1,32-33).
Nel racconto dei Magi il segno della regalità del re dei Giudei è addirittura l'apparizione di una stella ad Oriente, seguendo la quale essi giunsero,secondo Matteo, prima a Gerusalemme e poi a Betlemme (Mt.,II,1-23). A noi moderni paiono segni ben deboli per poggiare su di essi il titolo alla regalità con la conseguenza che la controversia cristiana ed ebraica avrebbe dovuto stemperarsi nei secoli, come finalmente,il documento Nostra aetate del Vaticano II ha riconosciuto, con plauso quasi universale. L'occorrenza dell'angelo e della stella nei due racconti evangelici assolve, invece, alla funzione di indicare in modo tecnico il tempo della nascita del messia, che secondo una tradizione rabbinica è già implicita in Genesi I,2 mediante il riferimento ad Isaia XI,2. Poiché è andata smarrita la chiave della conoscenza lo studioso serio inferisce, per rimanere sul terreno storico della certezza storica, l'esistenza di speculazioni sul Genesi, fatto la cui formulazione generica non porta a divenire principio ermeneutico o esegetico del racconto stesso, mentre ad altri non pare vero la possibilità di inventare ad hoc una teoria sul mito per confermare il proprio modello autoreferenziale della ragione. Il testo di S.Freud Mosè e il monoteismo, pur geniale per altri versi, ci illumina più sulla sua meta-teoria della psicoanalisi che sul racconto della rivelazione sul Sinai e il conseguente patto di alleanza delle tribù di Israele. Così l'oggetto del discorso risulta essere lo specchio del soggetto che discorre, che, in ciò che afferma, trova apparenti ragioni per la certezza di sè. Rompere lo specchio è però una tappa necessaria sulla via della terapia. La teofania di Jahvè tra lampi e tuoni è simile, così si dice, alla manifestazione del dio ittita della tempesta,come se questo raffronto rendesse per noi più eloquente il racconto, e non celasse la possibilità di cogliere in tale manifestazione la modalità della signoria divina sul tempo e la storia.


Cosmologia e Cristologia


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