Giovanni Ferrero

 

 

 Il secreto dell’arcangelo Gabriele

 Ermetismo e cristianesimo nella genesi dell’opera di Dante

secondo il quadro cosmologico della Sapienza arcaica[1]

 

 

Oh beati  quelli pochi che seggiono a           quella mensa dove lo pane   de li angeli si manuca! 

e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo!

                                                                                                                                                                                                                             (Convivio, I,I,7)

 

          Premessa

 

          L’acqua ch’io prendo già mai non si corse (Par.,II,7). Quando Dante scrive questo celebre verso, non solo esprime la consapevolezza di aver compiuto un singolare cammino, unico fino  allora, ma  avverte anche il lettore di non seguirlo, a meno che per tempo, fin dalla giovane età, egli non si sia dedicato “al pan degli angeli”, a quel cibo di cui qui in terra non si può provare sazietà: del quale vivesi qui ma non sen ven satollo (Par.II,11-12). Se già all’epoca di Dante pochissimi sono coloro che possono seguirlo, noi lettori di sette secoli dopo non abbiamo alcuna speranza, se già prima, indipendentemente dalla sua opera, non abbiamo solcato quel medesimo mare. Questo spiega perché prevalentemente la lettura di Dante si sia svolta e si svolga  sul piano della critica letteraria e della storia della letteratura,e non su  quello complessivo della storia della cultura, che esige l’intreccio di diversi saperi e competenze, da quello scientifico a quello teologico-filosofico, nonché l’educazione letteraria alla lettura.  Se noi non siamo più il pubblico  cui egli si rivolgeva, il  che non può essere inteso solo in senso ovvio e banale, allora è necessario tematizzare ciò che ha distinto in modo irreversibile il nostro mondo dall’universo pubblico e personale di un medioevale colto, quale fu Dante. Se non si ha, infatti, la consapevolezza che la modernità fu anche una rottura epistemologica, che orienta ancora oggi il nostro rapporto con le culture del passato, costituendo il quadro di riferimento categoriale di ciò che per noi  ha senso e non, allora non si è nemmeno in grado di sapere quali mediazioni culturali siano necessarie per costruire il ponte o i ponti con le culture del passato, senza attribuire, a loro  difetto, la nostra incapacità a cogliere il senso tecnico di un’espressione o di una metafora. Raramente, infatti, si trova l’ammissione che una qualche espressione è letteralmente incomprensibile, l'ammissione cioè che ci sfugge il contesto di informazioni necessarie entro cui essa risulterebbe intelligibile. Così il “pan degli angeli” viene inteso giustamente come un “sapere confortato dalla verità teologica e dalla contemplazione”, come si legge in uno studio pregevole di Maria Corti[2], senza però che sia detto di  quale sapere si tratti e senza che sia rilevato come l’espressione corrisponda al classico “cibo degli dei”. Oppure avviene che si cerchi   “ciò che è vivo e ciò che è morto” di un autore, la sua attualità, in una parola, distinguendo, come fece il Croce, il momento lirico-poetico da quello didascalico strutturale. Di fronte poi ad aspetti, che paiono caduchi, si ricorre infine alla categoria storiografica della “mistica dei numeri”, in realtà ad una etichetta di una bottiglia vuota, esprimendo nel contempo disprezzo e  archiviando definitivamente un problema fastidioso. Quando, infatti, Dante insiste a più riprese nella Vita Nuova sulla connessione del numero nove con Beatrice, la critica invece di riconoscere semplicemente che si ignora il significato di tale relazione, perché egli esplicitamente non la dichiara, vede in essa l’espressione del gusto degli antichi per l’enigma, nel migliore dei casi, oppure il portato caduco di un’epoca, di una mania di un’epoca o di una tradizione, nel peggiore.

          Si rimane inconsapevolmente nell'area delle categorie elaborate dalla modernità, quando,ad esempio, si afferma che l'intento dello scrittore sacro per il racconto sacerdotale della creazione (Genesi, I-II,3) non era scientifico ma teologico-religioso. Certo, non era scientifico secondo  quel  paradigma del sapere dimostrativo elaborato dai Greci e ripreso da Galileo, ma questo non implica che per accedere alla comprensione di quel racconto non sia necessaria proprio la conoscenza  di un  linguaggio relativo a quel "gran libro della natura",  che per Galileo era trascritto nei termini della tradizione matematica e astronomica greca (Euclide, Archimede,Tolomeo), che invece per gli antichi della cultura arcaica  era trascritto nei termini della tradizione della sophia, della sapienza, sorta, elaborata e comunicata nel contesto delle civiltà orali, pre-letterarie. Se il sapere scientifico di tipo matematico-astronomico è solo quello che si trova esemplificato nei trattati ellenistici, nella tradizione araba e nella ripresa copernicana e galileiana, lo storico delle culture arcaiche dovrà ricorrere, allora, ad una competenza, altra e diversa da quella scientifica, per comprendere i racconti antichi delle varie culture, cogliendone solo e la dimensione antropologica e  quella linguistica e quella letteraria, slegate però da quel quadro cosmologico di riferimento, da quel sapere, che ha costituito lo spazio per l'invenzione del codice del racconto stesso.

           Ai nostri occhi e alla luce dei nostri studi sulla cosmologia arcaica, la lettura di Dante esige non solo una congenialità personale, come la lettura di qualsiasi altro autore, ma soprattutto un incontro, frutto di un cammino e di un percorso di ricerche in cui siano consapevolmente e criticamente presenti le molteplici implicazioni, che la modernità, quale rottura con il passato e oblio dell’universo simbolico delle culture passate, ha di volta in volta significato sul piano della ricerca storica e filosofica. Il rapporto intricato di metodologia della conoscenza storica e di consapevolezza filosofica della modernità o della tradizione deve essere, se non risolto, almeno tenuto presente, assieme a quello ovvio della necessità di rileggere, secondo i loro codici culturali, gli autori, che Dante stesso cita, per recuperare quel mondo simbolico che non è più nativamente il nostro.

          Il cammino che ci ha portato a Dante parte da molto lontano, da una intuizione sorta durante lo studio, negli anni 1975-1978, del proemio di Parmenide[3] e relativa alla cultura arcaica. Quest'ultima ci apparve, nel corso degli anni, sempre più  definita dall’invenzione di modalità iconico-narrative che servivano a memorizzare e comunicare un  sapere cosmologico,mediante il quale gli antichi si orientavano nel passato, nel presente e nel futuro. La costanza nel determinare e precisare quell’intuizione, mediante l’individuazione dei vari codici culturali di tale sapere e  la loro traduzione nei termini di un modello aritmetico di calcolo,ci permise una ricostruzione formalmente completa[4], tale da essere un algoritmo per un programma al computer. La struttura formale di questo algoritmo circoscrive e corona l’ambito di quella sapienza antica sulla cui base sorgevano i poeti e i profeti:i primi imitavano, con la loro arte metrica, il coro delle Muse che accompagnava la musica di Apollo e i secondi componevano inni di lode al Signore del cosmo e ne presagivano la  presenza nella storia.Tale sapienza implica, in termini platonici, una visione sinottica delle scienze che confluiranno nel sistema medioevale del Quadrivium, come si rileva in alcuni passi della Repubblica.

          Per comprendere fin dove traspare tale sapienza, si può ricordare Boezio, neoplatonico e cristiano che, rinchiuso nella torre a Pavia, attribuisce alla Donna-Filosofia[5]   che gli è appena apparsa, questo singolare lamento:

                  

                                      Questi, che un tempo ne l’aperto cielo,

                                      seguendo libero degli astri il cammino,

                                      contemplava del sol la rosea aurora

                                      e fissava l’algente astro lunare,

                                      e gli erranti percorsi che ogni stella

                                      compie, volgendosi per varie orbite,

                                      nei numeri esprimeva vincitore;

                                      (...)

 

                                      ora qui giace, spento il lume della mente,

                                      e, stretto il collo da pesanti catene,

                                      il volto fatto chino per il peso

                                      è costretto, ahimè, a guardare la brutta terra.

                                       (De Consolatione, I,II,6-12;25-27; trad.Luca Obertello)[6]

 

          In questo lamento, sullo sfondo dell’antitesi letterale e simbolica di cielo-terra, il contrasto di libero e incarcerato rimanda a due ordini di realtà: infatti in quanto libero poteva vedere non solo il cielo sconfinato, ma anche coltivare quelle discipline matematiche, che la tradizione pitagorica e platonica richiedeva per la liberazione dell’anima dal carcere del corpo. Ciò che la Donna-Filosofia rileva è il contrasto di chi, un tempo libero, eccelleva nel determinare con i numeri la posizione del sole, della luna e dei pianeti, gli erranti, in rapporto al corso delle stelle o delle costellazioni; in rapporto, cioè, ad un intervallo temporale espresso dalla loro posizione: ora, invece, con l’ingiusta incarcerazione nella torre, egli è costretto, non già a rivolgere in virtù della propria statura eretta il suo sguardo al cielo, dove si trovano le radici della sua anima, come si esprime Platone nel Timeo, ma alla brutta terra.

          La tradizione della cultura arcaica e classica tiene infatti unite nel medesimo universo simbolico le due dimensioni, quello dell’orientamento di senso e quello della competenza, che la modernità ha irrimediabilmente disgiunte, relegando, la prima, alla sfera soggettiva della credenza e la seconda, a quella intersoggettiva della scienza.

 

          Dalla Vita Nuova  al  Convivio  

 

          A questa immagine della Donna-Filosofia, in quanto ricerca della sapienza,  Dante si rivolse, ad un momento cruciale della sua esperienza di letterato, mettendosi “a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio” (Cv,II,XII), come egli stesso dichiara nel Convivio. Che cosa trovò Dante in Boezio? e perché si mise a studiare la tradizione filosofica e frequentò le scuole dei religiosi? Saper rispondere a queste domande è un primo passo per delineare l’ambito, il terreno su cui sorse e si sviluppò l’opera dantesca. Quando egli descrive, nel Convivio, l’abbandono della memoria di Beatrice, dopo la  sua morte, per seguire un’altra Donna gentile, la Vita Nuova  era già stata diffusa, sicché tutte le motivazioni che nel Convivio troviamo rispetto a questo argomento debbono anche accordarsi alla precedente costruzione letteraria. D’altra parte il tempo che viene descritto è anteriore allo stesso progetto di raccogliere e ordinare le sue rime,  di commentarle e di chiosarle. E’ verosimile che alla morte della gloriosa donna cantata nel libello già pubblicato, Dante dichiari di aver voluto seguire le vie che altri han già percorso per “consolarsi”, e di leggere quindi  l’opera di Boezio e il libro di Cicerone, dedicato a Lelio per la morte di Scipione. Però è solo letterariamente verosimile e non biograficamente vero. Infatti se si leggono le due opere, soprattutto la prima, non si trova nulla  di più consolatorio rispetto alla fede religiosa  che egli aveva ricevuta. Boezio, apparentemente, nella tragedia di una imminente esecuzione per un’ingiusta sentenza di morte, riesce a trovare ragioni, che a noi sfuggono, per svegliarsi dal  quel “letargo” in cui era caduto, per ritornare alla contemplazione dell’ordine dell’universo a cui l’iter di tutti i suoi studi l’aveva condotto.

          La lettura  di Dante dei filosofi non fu facile, anzi! V’è l’ammissione di una difficoltà nell’acquisire il linguaggio filosofico da parte di chi aveva condotto solo studi di Grammatica e letture di poeti della tradizione latina e di quella volgare, ma essa venne superata, grazie ad un impegno che appare determinato e costante, nel giro di trenta mesi circa, secondo l’indicazione del capitolo XII del II libro. All’inizio del II capitolo, invece, Dante aveva già dato un’altra indicazione, astronomicamente  più precisa: dalla morte di Beatrice al sonetto Gentil pensero della Vita Nuova, il quarto e ultimo di quelli dedicati alla Donna gentile, nel Convivio reinterpretata come la Filosofia, il pianeta Venere aveva ripercorso per due volte il suo epiciclo. Qui abbiamo la indiretta confessione che il vero motivo della lettura dei filosofi non fu la ricerca di una consolazione per la perdita di Beatrice. Ricorrendo  alla similitudine di chi andando alla ricerca di qualcosa trova ben altro, così dichiara: “io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri” (Convivio, II,12,5).Il che significa che in questo tempo Dante, frequentando “le scuole de li religiosi” e “le disputazioni de li filosofanti” (Convivio, II,12,7), acquisisce una competenza filosofica, teologica e scientifica,  tale da ritrovare la medesima congenialità che aveva con i testi della tradizione letteraria. C'è da domandarsi se si tratta di una conversione alla Donna Gentile, dal momento che viene dichiarata “ figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia”  (Convivio, II,12,9), oppure di una ricerca consapevole e intenzionale della sapienza nella tradizione filosofica greca e in quella biblica e in quella cristiana, motivata profondamente in modo da fargli superare l’iniziale e non lieve  difficoltà.

          Che cosa si cela dietro “il saluto di Beatrice”: “mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini della beatitudine” (Vita Nuova, III,1)? Quale evento di comprensione sconvolge Dante tanto da ridurlo, lasciandosi guidare da esso, in una condizione debole e fragile da suscitare, negli amici, rincrescimento preoccupato e, negli invidiosi, domande su quello che egli “volea del tutto celare” (Vita Nuova, IV,1)? L’ipotesi di lettura, sul rapporto del Convivio alla Vita Nuova, che qui avanziamo, dipende sia da quanto in un inciso Dante stesso afferma a proposito della seconda, sia dalla presentazione ben articolata della Filosofia come ricerca della sapienza , di quella sapienza che era presso Dio alla creazione, con un esplicito riferimento ad un passo dei Proverbi (IV,18) ben noto anche nella tradizione liturgica (Convivio, III,15,16). Nel raccontare le difficoltà incontrate, Dante rileva che esse furono superate sia per la conoscenza dell’arte della grammatica, sia per il suo ingegno. Quest’ultima osservazione parrebbe superflua, perché implicita in ogni riuscita di impresa umana, senonché subito aggiunge un’annotazione preziosa: “per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando,(corsivo nostro) già vedea, sì come ne la Vita Nuova si può vedere” (Convivio,II, XII, 4).Quelle molte cose che nella Vita Nuova vedeva sono le stesse che cerca di esporre ed argomentare nel Convivio. La cultura della prima si esprime come un’ars memoriae, mentre la cultura della seconda si basa su di un’ars demonstrandi, comportando un mutamento anche nella stessa modalità della memoria. Nella prima viene comunicato, quasi come sognando, ciò che nel secondo viene argomentato con riferimenti ad autori, a testi e a tradizioni. Il linguaggio del sogno è una conseguenza della metafora del libro della memoria, che regge tutta quanta la  sua struttura, come il Singleton[7] ha mostrato nel suo saggio, mentre il Convivio dipende dalla “metafora di una mensa” sulla quale è dispensato con le vivande ( le canzoni)  il pane (il commento). A quella mensa, origine della metafora,  dice di non sedere, ma, essendo “fuggito de la pastura del vulgo” , solo raccoglie ai piedi degli invitati le briciole che da loro cadono. Poiché sente una tale dolcezza in quello che raccoglie, così prosegue la parabola dantesca con chiara allusione a quella evangelica (Lc.,XVI,19-31),e conoscendo la miseria di quelli che ha lasciato alle spalle, senza dimenticare se stesso, intende riservare loro e apparecchiare  “un generale convivio” e distribuire quel pane “che è mestiere a così fatta vivanda” (Convivio, I,1,9-15).”Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo!” (Convivio,I,I,7).Le scoperte allusioni bibliche e liturgiche di questa pagina dantesca situano senza ombra di dubbio il piano su cui deve essere letta e intesa la conclusione del tredicesimo e ultimo capitolo del primo libro: “Così rivolgendo li occhi a dietro, e raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato da le macule e da l’essere di biado; per  che tempo è d’intendere a ministrare le vivande. Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno in migliaia, e a me ne soperchieranno  le sporte piene. Questo sarà luce nuova,sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre e in oscuritate per lo usato sole che a loro non luce.” (Convivio, I,13,11-12). Questo  obiettivo che Dante si propone di conseguire per i suoi lettori, cioè la comprensione rinnovata della tradizione cristiana mediante la conoscenza della sapienza, scritta in volgare e non in latino, non può essere il frutto accidentale di un incontro del letterato con i filosofi e i teologi, ma il progetto intenzionalmente e costantemente perseguito; un progetto strettamente legato a quel “saluto”, all’incontro del poeta con la “gloriosa donna” della sua mente, dato che, “quasi come sognando” per il suo ingegno molte cose aveva intravisto.

          Così il Convivio non smentisce la Vita Nuova, alla quale egli non intende “in parte alcuna derogare”, togliere cioè valore, ma è scritto per maggiormente giovare alla comprensione di quel testo già pubblicato e diffuso, con un linguaggio però più confacente all’età virile, con il linguaggio consapevole della filosofia, a differenza di quello inconsapevole del sogno, proprio della poesia. Quattordici dovevano essere le canzoni esposte e commentate in altrettanti trattati, secondo l’ermeneutica della cultura del tempo, cioè secondo i quattro sensi della Scrittura ( senso letterale, allegorico, morale e anagogico, un “sovrasenso” quest'ultimo); quei trattati, con il primo introduttivo, avrebbero costituito i quindici trattati  del Convivio. Vivente non pubblicò nulla, avendolo lasciato incompiuto al IV; lo  fece però circolare in una ristretta cerchia di amici;   da quello che è rimasto, già si può intravedere il grandioso progetto di rinnovamento culturale a cui si dedicava, con una passione autenticamente civile, se “sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri” (Convivio, I,I,9), a differenza del ricco epulone che aveva negato le briciole al povero Lazzaro. Questa passione si rivolgeva innanzi tutto contro il tradimento di quegli intellettuali, esemplificati  nei “malvagi uomini d’Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano” (Convivio,I,11,1)[8].

 

          Filosofia e Sapienza

 

          La prima canzone di quattro stanze di tredici versi con un congedo di nove[9], già nell’apertura, mostra come il concetto di filosofia in Dante  sia completamente diverso dal nostro: mentre per noi, da Cartesio in poi, problema filosofico fondamentale e preliminare è quello della ricerca del fondamento della soggettività e della società, in un mondo "paranoicamente" vissuto nella possibilità di essere ingannati, per Dante, invece, il primo problema, quanto alla sua esposizione, è quello,  secondo la terminologia scolastica, intorno alla natura delle sostanze separate dalla materia, cioè le Intelligenze,“ le quali  la volgare gente chiamano Angeli”. C’è da dire che questa identificazione delle sostanze separate con gli angeli del Vecchio e del Nuovo Testamento non era dottrina comune: la negava Alberto Magno, quando in un certo senso l’accettava S.Tommaso d’Aquino, come Bruno Nardi ha mostrato;  forse dipendeva da Avicenna, che legava la tradizione neoplatonica di Proclo con quella degli angeli. Interessante è la distinzione tra i filosofi e i teologi che S.Bonaventura pone  riguardo le sostanze spirituali, Intelligenze motrici delle sfere secondo i filosofi, e Angeli nell'economia della redenzione, secondo i teologi[10].

          Il capitolo terzo tratta del numero dei cieli, cominciando da Aristotele e da Tolomeo, e l’ordine dei pianeti. Aristotele, secondo Dante, cadde in errore,  perché seguì in astronomia solamente dottrine altrui e l’errore concerneva sia il numero delle sfere celesti che la posizione del sole nell’ordine delle sfere. Tolomeo, poi, per  spiegare il moto precessivo delle stelle, aggiunse all’ottava sfera una nona, il cui nome Cristallino dovrebbe esprimerne la natura completamente diafana, trasparente. “Veramente, fuori di tutti questi, - così continua Dante - li cattolici pongono lo cielo Empireo, che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso” (Convivio, II,3,8). Questo cielo di fiamma,  stranamente somigliante al fuoco esterno della decima sfera di Filolao, è il più alto “edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s’inchiude, e di fuori dal quale nulla è; ed esso non è in luogo, ma formato fu solo nella prima Mente, la quale i Greci dicono Protonoè. Questa è quella magnificenza de la quale parlò il Salmista quando dice a Dio: «Levata è la magnificenza tua sopra li cieli»[Ps 8,2]” (Convivio,II,3,11). In questo notevole passo, Dante compie non già una contaminazione di diverse tradizioni, ma una equivalenza a livello di codici culturali, tra il codice culturale greco e quello biblico, pone uno di quei ponti senza i quali non si dà, dal suo punto di vista, comprensione della tradizione[11]. Poiché le intelligenze motrici presiedono ai moti delle sfere, c’è, nel  II e nel III libro, un continuo riferimento all’astronomia. In questo egli dipendeva  da Al-Fargani, un astronomo arabo del IX secolo, la cui opera Chronologica et Astronomica Elementa (da Dante citato  in 2,13,11: Liber de aggregationibus ) era stata tradotta in latino[12].

          Il capitolo IV è dedicato alla natura delle sostanze separate da materia e al  loro numero, e alla loro funzione. Incidentalmente vengono indentificate con gli angeli. Rispetto al loro numero, riferisce la dottrina dei  motori immobili del XII libro della Metafisica di Aristotele e quella delle “idee” platoniche. A queste aggiunge gli dei e dee dei gentili e dei poeti. La rassegna di opinioni porta all’affermazione  che “e per difetto di ragione e per difetto di ammaestramento”, cioè di rivelazione divina, la verità intorno a tali nature non fu vista. Così, passa all’esposizione della propria dottrina, che si discosta da quella tomistica sulla perfezione di tali nature. La distinzione della vita attiva e di quella contemplativa diviene il criterio in mano a Dante per sostenere una perfezione costituitiva per alcuni  nel governo dei moti celesti, seguendo in ciò una tesi averroistica, e di affermare per gli altri, molto più numerosi, la perfezione della vita contemplativa. Quanto poi alla loro eccellenza, che va oltre “li occhi della mente umana” , la ragione consiste che esse sono sostanze separate da materia, quando invece per noi uomini, come afferma, “l’anima è legata e incarcerata per li organi del nostro corpo” (Convivio,II,IV,17). Questa tesi orfica-pitagorica-platonica dell’anima incarcerata nel corpo implica la necessità di una specie di morte dell’anima, di  un suo sciogliersi dai legami con il corpo, se si vuol giungere alla visione delle cose celesti e spirituali;  ha un significato forse più morale-simbolico che ontologico.

 

          Cristologia sapienziale

           

           Questo periodo di studi rappresentato dal Convivio è quello in cui la Filosofia, nel simbolo della  Donna gentile, non si contrappone come scienza umana alla rivelazione divina, ma, come  Bruno Nardi[13] ha ben caratterizzato, si identifica con quella sapienza, le cui tracce si trovano in Aristotele, in Cicerone, come conoscenza delle cose umane e divine, e in Boezio, letti forse, aggiungiamo, con occhi arabi, la cui pienezza si trova nella Sapienza della tradizione ebraica (Salomone) coronata dalla dottrina del Logos del IV Vangelo. Ciò che però ci pare sia sfuggito al Nardi è la funzione della “cristologia sapienziale”, decisamente affermata all’inizio del V capitolo del II trattato e il ruolo dell’angelogia nell’economia della rivelazione. E qui siamo giunti a quello che più conta per Dante e all’inizio per la sua comprensione secondo la nostra ipotesi di lettura.

          Dante ha cura di distinguere la tradizione filosofica e letteraria dei Gentili dalla tradizione ebraica, e questa da quella cristiana. Gli antichi non videro la verità intorno alle creature spirituali, eccetto, in parte il popolo d’Israele, “da li suoi profeti ammaestrato” e i cristiani. La rassegna delle dottrine intorno alle creature spirituali e intorno ai loro cieli, con i  minimi riferimenti astronomici necessari, induce a far attenzione invece alla ragione, e soprattutto al modo, secondo il quale Dante afferma che nella rivelazione della tradizione cristiana si dà la verità intorno alla natura delle creature spirituali. ”Ma noi semo di ciò ammaestrati da colui che venne da quello, da colui che le fece, da colui che le conserva, cioè da lo Imperatore de l’universo, che è Cristo, figliuolo del sovrano Dio e figliuolo di Maria vergine, femmina veramente e figlia di Ioachino e d’Adamo: uomo vero, lo quale fu morto da noi, per che ci recò vita. «Lo qual fu luce che allumina noi ne le tenebre», sì come dice Ioanni Evangelista; e disse a noi la veritade di quelle cose che noi sapere sanza lui non potevamo, né veder veramente.” (Convivio, II,V,2-3).

          In questo notevole passo non c’è solo una tradizionale professione di fede, ma c’è il modo in cui Dante intende lo stesso cristianesimo, la genesi stessa della fede neotestamentaria. In esso viene affermata: 1) la connessione intrinseca della dottrina cristologica all’ «imperatore de l’universo», cioè il rapporto  della dottrina del Messia con il sovrano dell’universo 2) l’affermazione che il Messia è un vero uomo morto in croce; infine, 3) che quel sovrano dell’universo, uomo vero morto in croce è la luce che illumina ogni uomo, con un riferimento conclusivo al prologo del IV Vangelo. La theologia crucis, appena accennata da Dante, è incastonata tra due affermazioni, di cui la prima è la premessa storico- dialettica della seconda. La dottrina del Messia, cioè la cristologia, rimanda alla dottrina della creazione mediante i riferimenti alla sapienza. Pertanto la theologia crucis (dottrina della redenzione) è retta e deve essere retta da una theologia gloriae  in base  alla identificazione della sapienza originaria del Creatore con il Logos  del IV Vangelo. Nel cap. XIV del III trattato del Convivio c’è consapevolmente  questa identificazione. Qui non c’interessa sapere da quali fonti egli dipenda, ma osservare che essa esplica il primo punto di quella professione di fede. “ ché la sapienza, ne la quale questo amore fère, etterna è. Ond’è scritto di lei «Dal principio dinanzi da li secoli creata sono, e nel secolo che dee venire non verrò meno» [Ecclesiastico,24,14] e ne li Proverbi di Salomone essa Sapienza dice: «Etternalmente ordinata sono» [Proverbi,8,23]; e nel principio di Giovanni, ne l’Evangelio, si può la sua etternitade apertamente notare.” (Convivio, III,14,7). Il riferimento alla umanità e alla morte del Messia è fondamentale per evitare il  docetismo e risolvere la soteriologia in una pura gnosi, tuttavia data la sua implicazione eminentemente spirituale, cioè di coinvolgimento personale in rapporto alla vicenda temporale di Gesù, tale riferimento non viene ulteriormente sviluppato da Dante, essendo egli coinvolto nella scoperta della sapienza, cioè di quella theologia gloriae che sparì nell’epoca moderna, ad opera soprattutto del luteranesimo[14]. Le conseguenze di questa scomparsa si faranno sentire nella riduzione tutta moderna della rivelazione cristiana a puro fatto positivo, a religione positiva. Solo Hegel cercherà di inglobare nella fenomenologia della coscienza la storia della salvezza per superare l’antitesi kantiana di credere e sapere.

          Che rapporto c’è dunque tra la cristologia e la cosmologia, rapporto chiaramente indicato dai passi citati da Dante? Come deve essere intesa la cristologia sapienziale, in base alla quale, ad esempio, il protomartire Stefano vide aprirsi i cieli e il Figlio dell’Uomo alla destra del Padre, come si legge negli Atti degli Apostoli?

          L’inizio per poter comprendere questo rapporto si trova nell’ apocalittica giudaica, nella connessione già rabbinica, del tempo del Messia con la dottrina del Genesi, e precisamente con il versetto 2 del primo libro. Ora, in rapporto a questa problematica Dante fa una sorprendente affermazione, che si trova continuando la lettura di quel passo del Convivio. In rapporto alla verità delle creature spirituali, “La prima cosa e lo primo secreto che ne mostrò fu una de le creature predette: ciò fu quello suo grande legato che venne a Maria, giovinetta donzella di tredici anni, da parte del Sanator celestiale.” (Convivio,II,V,4). L’arcangelo Gabriele è la prima cosa e il primo secreto, ci dice Dante, in relazione  alla conoscenza dell’imperatore de l’universo, il Cristo, il Messia profetizzato ed atteso. Qui si devono porre alcune domande. Il secreto dell’angelo concerne il contenuto dell’annuncio, di per sé chiaro, oppure, essendo egli costitutivamente l’angelo dell’annuncio è, per questa ragione, nel quadro di quella sapienza, anche la  guida ad essa, rivelando con sè stesso ciò che implica secondo la storia del cosmo il suo annuncio, cioè il tempo dell’evento? 

 

          Il secreto  dell'angelo e il saluto di Beatrice

 

          Poi, che rapporto c’è tra questo secreto, riferito all’arcangelo e il secreto che il poeta dice di celare in tutti i modi nella Vita Nuova, relativo a Beatrice, a colei che, avendolo salutato, è divenuta la donna della salute? Dobbiamo pensare ad una proporzione, ad una analogia:  il saluto dell’arcangelo a Maria sta ad essa, come il saluto di Beatrice sta al poeta?  Per questo, di essa Dante dice nel sonetto, ad un anno esatto dalla morte di lei,

 

                                      fu posta da l’altissimo signore

                                      nel ciel de l’umiltate, ov’è Maria

                                                                   (Vita Nuova,XXXIV)

 

oppure, che “il nome di quella regina benedetta virgo Maria,” “fue in grandissima reverenzia ne le parole di questa Beatrice beata” (Vita Nuova, XXVIII,1)?

          Con queste domande possiamo cominciare ad affermare che Beatrice, forse, per  una nascosta relazione con l’arcangelo Gabriele, potrà assumere la medesima sua funzione di guida nell’accompagnare il poeta nella terza cantica, funzione di guida propria dell’angelo, come si trova nell’apocalittica giudaica e nell’esperienza filosofica e mistica dei sufi iranici, che si collegano a Platone e ad  Hermes, e in quella degli  ismailiti, nonché in quel viaggio notturno di Muhammad appena accennato nel Corano (XVII,1).  Il saluto di Beatrice ci  appare a questo punto non solo il premio che il poeta di un mondo cortese può attendersi dalla donna che egli canta, ma soprattutto la sapienza che rivela quel secreto che riguarda l’angelo che annuncia la nascita del Messia e l’inizio del regno escatologico: Angelus Domini nuntiavit Mariae... Se l’amore suscitato dalla bellezza di una donna è il sentimento o la passione che trasforma la vita di un uomo, allora la storia ben esile di questo eros  è solo il simbolo di una esperienza innovatrice ben più profonda: quella per cui tutte le antiche parole della tradizione risuonano come nuove nell’universo rinnovato di un cielo e di una terra vera ,aperto da quel simbolico saluto. La storia raccontata, senza essere negata nella sua lettera  come vicenda, diviene, per l’arte dello scrittore, che si  istituisce e affina nell’approfondimento di questa esperienza, il sistema espressivo del dischiuso universo simbolico e della conoscenza e della visione.

 

          La forma letteraria della tradizione sapienziale

 

          Possiamo ben dire ora, con Dante,

         

                             udite il ragionar ch’è nel mio core,

                             ch’io nol so dire altrui, sì mi par novo;

                                                          (Convivio,II,I,5,2-3)

 

e tentare di rispondere alle precedenti domande, sia pure con tutte le limitazioni di dottrina e di cultura che lo svolgimento di tale arduo assunto farà emergere, mostrando la loro pertinenza per comprendere il poliedrico e articolato spazio, in cui si situa la genesi complessa dell’opera di Dante.

          Il primo passo richiede che si intuisca almeno la struttura formale di quello che abbiamo chiamato il modello aritmetico della cosmologia arcaica [15], coronamento della tradizione sapienziale.

          Noi siamo abituati, come cultori della civiltà del libro, ad  intendere e ad esprimere i modelli del sapere mediante affermazioni astratte, teoriche, distinguendole dal loro campo di applicazione. Per la cultura arcaica non c’è teoria astratta dal suo esempio, non c’è la definizione astratta della giustizia, ad esempio, in base alla quale giudicare un comportamento, ma c’è il racconto esemplare di un comportamento ingiusto o giusto in quella determinata situazione narrata dal racconto, come si può vedere nell’Iliade e nell’Odissea, letti come documenti di una civiltà pre-letteraria. Qui si inserisce la questione oggi molto dibattuta del rapporto tra cultura orale e cultura scritta nell’antichità. Così non c’è il manuale della cosmologia arcaica, ma il racconto di un evento esemplare, per la cui determinazione temporale è necessario sapere il punto di partenza, il tempo zero e l’intervallo temporale a partire dall’origine e la posizione del sole e della luna nel sistema delle stelle fisse, mediante un sistema  semplice di calcolo.  Ora se anche si sapesse calcolare con il sistema arcaico, ma non si conoscessero le origini temporali, un tale sapere non porterebbe a conoscenza di eventi e soprattutto non sarebbe un sistema di controllo nella lettura di un testo. Essere di una tradizione culturale arcaica o classica significa sapersi orientare rispetto alla origine temporale, saperla esprimere mediante i suoi codici culturali.

         

          Il codice delle misure temporali

 

           Il sistema di calcolo si basa sul numero dei mesi trascorsi, o che devono ancora trascorrere, tra l'evento narrato e il momento di inizio del computo del tempo in cui tale evento si situa. I modi, però, di indicare tale intervallo temporale, oltre all’anno e ai giorni, generalmente non impiegati, è dato da un sistema di quattro equivalenze, che  non sono più state usate nell’astronomia geometrica greca e moderna. Solo per le stelle si sa che la loro longitudine è una funzione temporale, dato che aumentano di cinquanta e rotti secondi all’anno, effetto della precessione degli equinozi L’organizzazione delle misure temporali nell’universo arcaico ruota infatti proprio attorno a tale precessione, come hanno cercato di mostrare Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend nel loro saggio Il mulino di Amleto, saggio sul mito e sulla struttura del tempo.[16] La cosmologia arcaica, pertanto, è essenzialmente una cosmocronologia basata sul sistema di esprimere l’intervallo base del mese lunare mediante un sistema di equivalenze. Così, il numero 21, ad esempio, può implicare la sua equivalenza con  l’intervallo di 18404 mesi lunari, corrispondenti a 1488 anni solari (tropici), durante il quale il polo dell’universo compie un arco di 20° 40' con 80 rivoluzioni dei nodi ascendenti lunari. Il punto equinoziale si  sposta con lo stesso angolo in senso retrogrado, facendo così aumentare proporzionalmente la longitudine delle stelle. Il numero 21 è la differenza in giorni tra anno sidereo e anno tropico presa 1488 volte. Questa differenza nella cultura arcaica si chiama tecnicamente  fulmine; con esso Zeus governa gli enti, come un noto frammento di Eraclito recita. Poiché al fulmine sono connessi sia il lampo che il tuono, anche questi sono armi di Zeus. Nella cultura biblica essi sono legati al trono di Dio, da cui escono voci, tuoni e lampi come è detto nell’Apocalisse, con un implicito riferimento alla teofania sul Sinai. Il quadrato che congiunge i punti equinoziali e solstiziali nel cerchio apparente del percorso del sole, ha il nome tecnico di terra (“emersa” : dall’equinozio di primavera all’equinozio di autunno), o terra vera o terra celeste, e poiché tali punti si spostano  perché l’equatore celeste interseca, l’anno successivo, in un altro punto il cerchio del sole, si ha un moto della terra che è propriamente un terrae motus, che non si riferisce ai movimenti tellurici di quaggiù, ma all’espressione di intervalli temporali in base alla precessione annua degli equinozi. Su questo principio, Newton stesso cercò di riscrivere una cronologia degli antichi, ricevendone l’elogio da Voltaire, basandosi sulle misure di longitudine delle stelle che trovava o credeva di trovare nel commento di Ipparco ad Arato o nei racconti dei miti. Però questo sistema si può applicare solo se si ricostruisce contemporaneamente, mediante l’individuazione del codice di comunicazione del sapere arcaico, il catalogo stellare per il tempo zero, il tempo dell'origine, e non se si misura la longitudine delle stelle o si fa un confronto tra due misure. Infatti si dà sempre l’approssimazione o l’errore nella misurazione. Per questa ragione un autore antico non può permettersi di apportare variazione alcuna nei dati costitutivi il sapere tradizionale, che riscopre mediante lo studio degli autori della sua tradizione, altrimenti non sarebbe neppure compreso e fallirebbe la comunicazione. Così per  dire il tempo di un evento è necessario sapere la situazione dell’origine, e quanto tempo sia passato da allora.

 

          Il racconto della creazione e la profezia messianica

 

          Il rapporto stretto tra la dottrina della creazione, la profezia del Messia e il tempo del sua venuta si dispiega nella sapienza che dice 1) come sia fatto il mondo 2) come il tempo  proceda 3) come venga espresso. Argomenti questi che appartengono ad una particolare filosofia della natura, che esplicita l’origine delle metafore e dei simboli della tradizione biblica. Ciò che è fisso è il piano su cui si muove apparentemente il  sole, il cui nome tecnico secondo il mito è la terra e secondo il linguaggio scientifico attuale è l’eclittica. Così non è più una metafora dire che il trono di Dio si trova nel cielo e la terra è lo sgabello dei suoi piedi, come si legge nell’ultimo capitolo di Isaia, il 66mo  con 24 versetti, perché c’è un isomorfismo tra il polo e il trono e la terra e l’eclittica. Dante si dilunga alquanto, nel cap. V del III trattato del Convivio, sull’equatore della sfera del sole, cioè l’eclittica, inclinata sull’equatore del cielo delle stelle fisse di un angolo di 23° e “uno punto più” (Convivio,III,5,14). Si osservi che qui Dante usa il termine “punto” nel significato astronomico greco di 30' o mezzo grado. Per la tradizione sapienziale quell’inclinazione era di 24° sicché il polo delle stelle fisse si trova a 66° di latitudine nord, per le regioni boreali, e a 66° di latitudine sud per le regioni australi. Per dire il tempo della venuta del Messia è sufficiente descrivere la struttura dell’universo, regolata da quell’angolo di 24° di inclinazione dell’equatore della sfera  del sole, sull’equatore della sfera delle stelle , perché le grandezze numeriche che esprimono l’intervallo temporale, come valori angolari di precessione, sono quelle che definiscono la struttura cosmografica dell’universo: il polo celeste si trova a 66° di latitudine; dista dal polo dell’eclittica 24°. Perciò l’intervallo temporale misurato da 66° 24' 48", come si può vedere leggendo il capitolo IV dell’Apocalisse[17], la cui visione descrive precisamente i  ventiquattro anziani seduti sui ventiquattro troni attorno al trono centrale, definisce in modo sapienziale quando sarà la fine dei tempi e l’inizio del regno escatologico, cioè il tempo della nascita del Messia, annunciato dall’arcangelo. Non si può sapere quale sia la data, secondo la nostra cronologia, corrispondente a questo intervallo temporale, espresso secondo una misura angolare, a meno che già non si  sappia la corrispondenza dell'inizio, del tempo zero, alla nostra cronologia o qualsiasi altra corrispondenza. Si vedrà come Dante fornisca questa corrispondenza, necessaria per passare dal sistema cronocosmologico arcaico a quello adottato nell'era cristiana dopo l'errore di Dionigi il piccolo riguardo l'anno di nascita di Gesù rispetto all'anno di fondazione della città di Roma. Anche senza l'errore di Dionigi il piccolo, assumere come punto di riferimento la fondazione di Roma[18] equivale a nascondere l'accesso al codice della tradizione biblica e cristiana. Tale nascondimento è conseguenza del processo di "romanizzazione" del cristianesimo, avvenuto sul piano istituzionale, ed è parallelo a quello di "ellenizzazione", avvenuto sul piano del modello culturale.

          Dal punto di vista tecnico la storia della salvezza orientata verso la fine dei tempi, che si compie con la nascita del Messia, non si distingue da quella che vede il proprio presente in rapporto ad un origine costitutiva nel passato, perché l’intervallo temporale, derivante ed esprimente la struttura stessa dell’universo, ha un senso solo se viene applicata ad un’origine temporale. Infatti si dovrà dire che i tempi saranno compiuti quando si sarà verificata un certa condizione a partire da un’origine. Questo non significa che non vi sia differenza culturale tra l’esperienza della temporalità incentrata sulla speranza di un evento futuro, misurato già da quella stessa sapienza che accompagnava Dio al mattino del mondo, e quella incentrata nel ricordo di un origine. Non si deve però pensare l’attesa messianica, né come  un’attesa utopica né come il ritorno ciclico di una situazione astrale. Il Natale significa quell’unico evento, la cui espressione temporale può essere detta prima ancora della creazione del sole, della luna e delle stelle, perché implica solo la struttura cosmografica dell’universo. Il virgiliano  iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna della IV Ecloga esprime una prospettiva ben diversa dalla riflessione apocalittica sul Genesi, anche se nei secoli cristiani esso venne considerato “profetico”, Infatti il ritorno in terra della Giustizia, rifugiatasi nella costellazione della Vergine, potrebbe essere stato assimilato al preannunciato regno di giustizia dei tempi escatologici. 

          Ciò che abbiamo prospettato come il rapporto tra la struttura cosmografica dell’universo, compresa nella sapienza e il tempo della nascita del Messia alla fine dei tempi, si può ritrovare in un passo di S.Bonaventura, il cui senso è il medesimo: «Tutta la filosofia naturale mette in evidenza, secondo un rapporto di proporzione, la Parola di Dio nata e incarnatasi per essere l’Alfa e l’Omega, nata cioè in principio e prima del tempo, ma incarnatasi alla fine dei tempi»[19].  Si osservi come sia la filosofia naturale, e quindi la cosmologia, e non la teologia a mostrare in modo analogico la tesi affermata.

               

 

 

Tav. 1  Confronto tra la struttura geometrica e simbolica della miniatura con la mappa cosmografica. P è il polo celeste attorno a cui ruota il cielo (equatore celeste e circolo di declinazione di 24°) p è il polo dell'eclittica. I due circoli che si intersecano sono quelli di declinazione e di latitudine di 24°. Il polo P mentre il cielo ruota si sposta in senso contrario lentissimamente di 50" per anno tropico sul "percorso della precessione". Questo movimento è implicato nel testo biblico in Gen.I,2. I due circoli di declinazione e di latitudine più piccoli sono le due corone dei beati descritte da Dante in Paradiso XIII.

 

 

La stretta connessione tra il racconto della creazione, la meditazione sapienziale sulla medesima e la profezia  di Isaia, significa da un lato, che il Creatore del cielo e della terra è anche il Signore della storia e implica dall’altro, che la redazione del racconto sacerdotale del Genesi deve ricondursi al tempo di Ezechia dopo la conquista assira del regno di Israele nel 722 a. C. perché la  profezia risulta da un’ approfondimento della cultura di quel racconto. Per una ragione diversa da quelle esposte da Richard Elliot Friedman[20],alcune delle quali potrebbero non essere condivise, anche noi pensiamo che il racconto sacerdotale della creazione sia da ascriversi all’inizio del regno di Ezechia, che con la sua riforma religiosa segnò una centralizzazione del culto a Gerusalemme. Non sembri, questa una digressione fuori luogo, perché potrebbe anche esserci la sorpresa leggendo  Dante, che nella visione dei sette candelabri  (simbolo del culto giudaico) e dell’arrivo del carro nel paradiso terrestre egli, in realtà, descriva una situazione planetaria  ed uranografica coincidente con l’inizio del  regno di Ezechia.

 

 

 

 

          Cosmologia e angelologia

 

 

          Il Natale risulta l’unico evento storico-cosmico, la cui profezia esprime quella sapienza originaria. Tuttavia se non venisse precisata l’ origine risulterebbe del tutto indeterminato il tempo del suo accadimento. L’angelogia, che Dante mette in corrispondenza con l’ordine delle nove sfere, seguendo l’ordinamento di S. Gregorio Magno (Moralia in Job. XXXII, 48) concerne non solo la  liturgia celeste di lode del Creatore,- significato spirituale e religioso - ma in quanto gli angeli sono annunciatori, annunciano il tempo dell’evento, e lo possono annunciare perché segnano il tempo fino dall’origine. Se abbiamo correttamente indicato il significato della riflessione apocalittica sul Genesi, allora risulta precisata la natura della loro funzione, che non è solo quella di cantare le lodi al Creatore, ma di indicare agli uomini i tempi, conducendoli di sfera e in sfera fino all’origine, come fa Beatrice con Dante e l’arcangelo Gabriele con Enoc. Infatti solo dall’origine si può vedere lo svolgimento della storia. Si ricordi quando Dante raggiunge la costellazione dei Gemelli. Da queste premesse una conclusione si impone. E’ necessario identificare gli angeli con le stelle fisse come è esplicitamente affermato nell’Apocalisse. Non  già le stelle in quanto segnali luminosi visibili di notte, ma la loro longitudine che risulta solo con l’introduzione del sistema delle sfere, di quella delle stelle e di quella del sole, essendo la longitudine l’arco preso sul cerchio del sole partendo dal punto di intersezione dell’equatore celeste con il medesimo cerchio.  Se la corrispondenza degli ordini angelici con il sistema delle sfere non implicasse tecnicamente questo, allora la complessa struttura cosmologica, descritta da Dante e da altri prima di lui, sarebbe del tutto superflua ed anche ingombrante. Infatti con la rivoluzione copernicana e con quella galileiana, l’antica struttura cosmologica scomparve trascinando nell’oblio tutto ciò che di tecnico era connesso alla funzione simbolica del cielo. A ben guardare con la “tellurizzazione del cielo” operata da Galilei - con la sua critica al presupposto aristotelico sulla  natura celeste sostanzialmente diversa da quella sublunare - l’uomo moderno si trovò senza più un cielo che lo orientasse simbolicamente, non percependone più né l’antica armonia né l’incessante coro degli angeli, ma solo, pascalianamente, il silenzio eterno degli spazi infiniti. E’ comprensibile che non si fosse più ricercata l’implicazione tecnica sul piano cosmocronologico che la tradizionale dottrina sugli angeli aveva comportato, apparendo questa tradizione solo legata alla pietà religiosa popolare. Naturale è ora  la perplessità a fronte di una tesi e di una prospettiva, che, in forza delle premesse poste, conduce a ricercare, addirittura,  un vero e proprio catalogo stellare relativo al tempo zero in testi della tradizione letteraria e religiosa antica e medioevale. Certo non un catalogo stellare con la forma moderna del catalogo!  Solo se si coglie la modalità peculiare di comunicare valori numerici nei testi della tradizione letteraria classica - si pensi ai metri di Boezio e al lamento della Filosofia- solo allora si potrà cogliere la verità della tesi e la grandezza somma di Dante.

 

          La comunicazione del sapere scientifico

 

          Da dove cominciare e che cosa cercare per trovare valori di longitudini di stelle? Una geniale osservazione del Singleton ci dà il punto di partenza per presentare in modo non totalmente nuovo la nostra ricerca e i nostri risultati.

          Egli, nel già citato  capitolo “Il libro della memoria”, sulla cui metafora si ordina la scrittura della Vita Nuova, ha  ben colto il significato culturale, ma non quello tecnico, delle divisioni delle poesie che si trovano nell’opera, così argomentando:

” Ritengo tuttavia che né potremo spiegarci la presenza delle divisioni nella Vita Nuova né vedere come esse facciano parte della metafora del Libro della memoria, se non siamo disposti ad accettare l’idea che il modo in cui si guarda una poesia può essere una “imitazione” del modo in cui si guarda il mondo; e ciò proprio per il motivo che una poesia può (o forse dovrebbe) essere un’imitazione del mondo” [21]. In altri termini, come il libro della memoria rimanda al libro dell’universo, e a quell’altro libro che è la Bibbia, così, se la poesia è imitazione del modo in cui il medioevale guardava il mondo come libro della creazione, come manoscritto cifrato di Dio, le sue suddivisioni, rimandano precisamente a successioni numeriche significative nel contesto del libro della natura, letto e contemplato, però, con gli occhi di quella sapienza con cui Dio lo aveva creato al principio. L’analisi della canzone centrale Donna pietosa e di novella etate mostrerà la verità di questa tesi senza ombra alcuna di dubbio.

          Seguiamo la magistrale presentazione del Singleton:

          “Come abbiamo osservato all’inizio, la terza visione è quella che occupa il centro della Vita Nuova (capitolo XXIII) ed è carica di significato per la struttura della opera nel suo complesso. Già il fatto che essa giunge al nono giorno di una malattia del poeta è un segno indicativo. Il dolore fisico, quel giorno molto aumentato, lo aveva fatto pensare alla fralezza della sua vita e da questo pensiero era stato quindi condotto a riflettere che un giorno la gentilissima Beatrice sarebbe dovuta necessariamente morire. Fu allora che «gli giunse un sì forte smarrimento» che chiuse gli occhi, entrando in quello che sembrava una specie di delirio. Nella narrazione è notevolmente sottolineato il fatto che quanto egli vede ora non può essere altro che il frutto di un’immaginazione malata, il vaneggiamento di una mente febbrile. Prima gli appaiono volti di donne scapigliate, che gli dicono: «Tu pur morrai»; poi, altri orribili visi, che gli si rivolgono dicendo: «Tu se’ morto».”[22]

         

          L'esperienza apocalittica della rivelazione

 

          Fin qui il Singleton. La prosa di Dante così dice: “Così cominciando ad errare la mia fantasia, venni a quello ch’io non sapea ove io mi fosse[23], e vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch’elle mi facevano giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando per l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi terremuoti.” (Vita Nuova, XXIII,5).A questo testo in prosa corrispondono nella canzone i vv. 49-56:

 

                                      Poi mi parve vedere a poco a poco

                             50      turbar lo sole e apparir la stella,

                                       e pianger elli ed ella;

                                      cader li augelli volando per l’are,

                                      e la terra tremare;

                                      ed  omo apparve scolorito e fioco,

                             55      dicendomi: - Che fai? Non sai novella?

                                      morta è la donna tua, ch’era sì bella. -

 

          Sia il testo che i versi hanno indotto il Singleton ed altri a vedervi un riferimento alla morte di Cristo, presentando in un certo senso Beatrice come figura Christi. Ora, prima di essere un riferimento al testo dell'evangelista S. Matteo, i versi letteralmente significano un’eclisse totale di sole. Perché allora c’è la descrizione di un’eclisse concomitante alla notizia dell’avvenuta morte di Beatrice? La descrizione si riferisce ad un’eclisse storicamente avvenuta oppure essa è una metafora? Gli elementi in comune ai due testi  sono il terremoto e l’oscurarsi del sole, ma tutto il brano citato di Dante esprime un’esperienza apocalittica più che la reminiscenza letteraria di un testo evangelico. La loro somiglianza  potrebbe spiegarsi, infatti, più  come  espressione dipendente da una medesima tradizione  culturale, con il proprio lessico, che non un riferimento diretto di un testo ad un altro. Ora in un brano, pubblicato da Delatte[24], attribuito da un compilatore bizantino ad Arpocrazione Alessandrino, e tradotto in latino nel 1169 d. C., a Costantinopoli, si legge questa invocazione all’anima (corsivo nostro):

          O anima immortalis mortale corpus portans, ducta per aerem, obligata malis vinculis necessitatis  (...) Cum autem egressa fueris a gravi corpore, vere videbis Deum dominantem in aere et nube, qui tonitrua et terrae motus inducit, fulgura quoque et coruscationes et fundamenta terrae movet et undas maris. Haec sunt opera Dei Patris aeterni.. Non si può non notare la somiglianza con il testo di Dante, che tra l’altro presenta, come abbiamo già rilevato, un topos sulle rivelazioni della tradizione ermetica.  Dopo il “Tu  se’ morto” del testo in prosa, c’è la descrizione della  visione, presentata come effetto della malattia, quasi  uno sciogliersi dell’anima dal corpo. Un commento al testo di Arpocrazione, in cui  è riconoscibile un’ allusione alla tradizione del profeta Daniele, esigerebbe una esposizione quasi completa del lessico della cosmologia arcaica, soprattutto per capire i fenomeni meteorologici come significanti l’ opera dell’eterno Dio Padre. Dallo scioglimento dell’anima dalla pesantezza del corpo è promessa la visione di Dio che giunge come Signore sopra le nubi e l'aria, è promessa la visione di Dio giudice, causa di tuoni e terremoti, fulmini e lampi, sommovimenti delle fondazioni della terra e dell’onda marina. Risulta allora chiaro che tale lessico non si riferisce a fenomeni atmosferici e sismici, ma a qualcosa d’altro. Essi indicano, come abbiamo accennato, quel sistema di equivalenze di espressione degli intervalli temporali. Allora, se Dante parla al verso 50 di un oscurarsi del sole e dell’apparizione della stella e se esprime, avendola scoperta, questa tradizione, deve indicare anche la misura del grandissimo terremoto, misura da leggersi nelle divisioni o suddivisioni della canzone. Essa consta di 84 versi divisi in 28 e 56 versi, i quali a loro volta si suddividono in (14,14) (28,27,1). Queste suddivisioni, grazie all’intuizione geniale del Singleton, sono da intendersi come imitazioni di una scrittura di eventi leggibile nel libro dell’universo. Certamente senza la ricostruzione del modello aritmetico di calcolo non si potrebbe trovare che lo spostamento angolare di quel quadrante chiamato terra , pari a 84° 28' 27" -1'” , un grandissimo spostamento, cioè un terremoto[25], individua a partire dal tempo zero un’eclisse solare totale, con il sole a 50° in mezzo alla costellazione delle Pleiadi,- le donne scapigliate forse -  con il sole coincidente con  h Tauri,  Alcione, il corrispondente uranografico della Donna pietosa e di novella etate. Qui ci sono tutti gli elementi per sostenere, facendo gli oppurtuni calcoli, che dopo 30699.5 mesi dall'origine la stella segnava l’equinozio di primavera e dopo ancora 3600 anni coincideva con la longitudine del sole e con il nodo ascendente lunare, altrimenti non vi sarebbe stata possibilità di eclisse. Essa è data in visione, quasi come in un sogno: è cioè un’eclisse calcolata  e non realmente vista da Dante, interessando il 3 maggio 1296  l’Islanda e non la Toscana. E’ questo un esempio di comunicazione letteraria di una informazione scientifica secondo il codice culturale arcaico, per dire la longitudine di una stella. Il tempo di questa visione è posteriore di 73 mesi dalla data indicata da Dante per la morte di Beatrice, e al verso 73 della canzone si legge: Morte, assai dolce ti tegno.[26]

 

          Beatrice alias Sirio

         

          Chi ci avesse seguito fin qui, non troverebbe strano cercare quale sia la stella corrispondente a Beatrice  e come debba essere letta la data, secondo la nostra cronologia, dell '8 giugno 1290, cioé quella della sua “morte”. Che la gloriosa donna sia una stella nel cielo, e una delle più luminose, se non la più luminosa, non dovrebbe più meravigliare dopo quanto stiamo dicendo. Il gioco apparente che Dante fa sul numero nove diviene pienamente intelligibile se dobbiamo cercare il valore di longitudine di una stella  al tempo zero. Si tratta di sapere solo sotto quale forma esso sia dato, tra tutte le molteplici espressioni per un intervallo temporale. Nove volte quel valore equivale alla lettura che Dante propone di quella data: anni, secondo il calendario cristiano, 1290; mesi, secondo il calendario siriaco, nove;giorni, secondo il calendario arabo, nove. Il numero degli anni indicano le sessantine e il numero dei mesi le unità di un’intervallo temporale, espresso in mesi, equivalente a nove volte la longitudine iniziale, espressa in mesi.

          Allora

                                      1290*60 + 9 = 9* 8601 mesi     

                  

da cui  8601 mesi  è la base per calcolare la longitudine iniziale della stella, cioè la sua longitudine al tempo zero.

          Il riferimento al sistema cronologico arabo deve essere attentamente valutato, perché vi sono anche altri sistemi che fanno iniziare il giorno dopo il tramonto del sole. Vi potrebbe essere, infatti, mediante i tre sistemi, un'allusione alle tre tradizioni culturali delle religioni abramiche.

          Come per un vivente non è possibile determinare a priori  la durata della sua vita, che si fissa  all’istante della sua morte, così la determinazione della longitudine di una stella appare letterariamente sotto la metafora della morte di quella “figura” ad essa associata, e associata secondo una tradizione culturale, e non secondo una invenzione poetica. Ha ragione Dante nel sostenere di non voler trattare estesamente “de la sua partita da noi”, altrimenti “converrebbe essere me laudatore di me medesimo”, lasciando ad altri questo compito, se si pensa che sotto la data di morte di Beatrice si cela l’implesso culturale della tradizione arcaica.

          Il  nome della stella, secondo il catalogo stellare, è a Cma, Sirio, vera e propria regina del cielo, cantata e celebrata sotto diversi nomi dai diversi popoli dell’antichità. Essa è il centro dell’universo arcaico. La tradizione, che Dante forse segue, è quella ermetica[27],se dobbiamo dare credito ad  un testo  tradotto dall’arabo in latino, De XV stellis, attribuito a Messalah, secondo il quale la figura di una puella, di una giovane fanciulla è associata ad Alhabor, Sirio, assieme alla sua pietra preziosa, il berillo, e ad un’erba, la savina. Secondo un rimaneggiamento del medesimo testo, attribuito a Enoch  secondo alcuni,a Thebit ben Corat secondo altri, la figura associata a Sirio è come una lepre o una pulchra virgo.  Sempre nel De XV stellis, ad Algomeisa, ovvero Procione, l’immagine, la rappresentazione, è quella di tres puellae, tre giovani fanciulle, che il Festugière identifica con le tre Grazie che compaiono nell’affresco del trionfo di Amore nel palazzo Schifanoia di Ferrara[28]. 

 

 

 

          Sirio centro dell'universo arcaico

 

           Beatrice alias Sirio! Parlare di Sirio significa aprire uno dei capitoli più affascinanti della cultura antica e ricordare Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, l’allieva di Frobenius, dopo il Petavio, l’Ideler, il Lepsius, e altri eruditi sistematicamente dimenticati dalla tradizione filologica e storica accademica. Si può ricordare semplicemente che tale stella forniva nei cieli di Egitto e di Babilonia il modello per il calcolo del tempo, se il suo sorgere eliaco (= circonfusa di luce) avveniva sempre ogni quattro anni giuliani, cioè ogni 1461 giorni. Essa è presente sotto l’immagine della mulier amicta sole con la luna sotto i piedi, che grida per le doglie del parto, nel capitolo XII dell’Apocalisse, e, nel racconto accadico del diluvio, le grida di Isthar sono come quelle di una partoriente ed è,come astro di Iside, Sothis, il cui nome, secondo quanto riferisce Plutarco, significa in egiziano pregnanza o l'esser pregnanti[29] .

 

          Verso la mirabile visione

 

          Beatrice, alias Sirio, rivela dunque il secreto relativo all’arcangelo. In che senso? Si deve infatti considerare che quando Sirio ha la longitudine identica a quella che esprime l’intervallo temporale per il Natale, ci si trova esattamente a 8601 mesi prima, al tempo cioè di Ezechia e di Isaia. Trovare il tempo corrispondente a quello dell’Annunciazione non è difficile,  è solo nove mesi prima.

           A conclusione della Vita Nuova Dante scrive espressamente il sonetto Oltre la spera che accompagna quello già precedentemente scritto, Venite ad intender, del capitolo XXXII. I quattordici versi di questo sonetto sono suddivisi in due e dodici versi. Ora la successione 14,2,12, letta come espressione sessagesimale di un numero di mesi, individua, partendo dal tempo zero, il plenilunio 8601 mesi  anteriore all’Annunciazione. La mirabile visione, invece, cui accenna Dante nella conclusione, dipende probabilmente da una particolare scrittura del tempo dell’Annunciazione; dopo aver riscritto l’intervallo iniziale di 8601 mesi, relativo alla stella  Siro, si ottiene

 

                                           8601 mesi = (8052 + 549) mesi

 

dove si trovano in 8052 i  mesi pari a 651 anni del ciclo di Apollo e in 549, riscritto secondo il sistema sessagesimale (9,9), la comparsa del ritornante numero nove. In questa riscrittura c’è l’interpretazione di Dante del mito di Apollo. Così le espressioni sessagesimali

 

                                  To + 14,2,12 + 2,14,12, + 9,9

 

determinano  in mesi il tempo dell’Annunciazione. Per l’arte della memoria la permutazione della successione 14,2,12, in 2,14,12 permette di derivare dal mito di Apollo, nascondendolo  in esso, quello che il poeta dice relativo al secreto dell’Arcangelo. Poiché si distingue il tempo a creatione mundi da quello a creatione hominis, è necessario ricercare, nel Convivio, una esplicita divisione per trovare la differenza tra i due tempi. All’inizio dell’ultimo capitolo del IV trattato, si trova indicata una divisione, che permette di leggere 3,-13,-14 mesi, avendo la canzone “tre parti”   e il  ragionamento per la prima parte si sviluppa “per tredici  e la seconda per quattordici capitoli” (Convivio, IV,30,1). Così l’espressione precedente risulta, essendo To + 3,-13,-14  = T1

                                      T1 + 13,39,-13

 

          La canzone Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete, la prima del Convivio, è composta di quattro stanze di tredici versi con un congedo di nove, mentre la preghiera di San Bernardo alla Vergine è composta da tredici terzine con il riferimento al concepimento al verso 9: così è germinato questo fiore. In quel  germinato   c’è la ripresa di un passo di Isaia (35,2-4), che, nella vulgata latina veniva recitato alla lectio III del Breviario romano nella festa dell’Annunciazione: « et florebit quasi lilium. Germinans germinabitur». Per Dante si tratta di vedere che, come il tredici supera il nove di quattro unità, così il tempo espresso dal numero sessagesimale 13,39,0 mesi supera di quattro mesi il tempo della natività, sicché l’annuncio è avvenuto a 13,39,-13



 

mesi, pari a 49127 mesi da una determinata origine. Ancora di 13 versi, con dieci endecasillabi e tre settenari,  sono le stanze della canzone del Petrarca Vergine bella, che di sol  vestita, mentre il congedo è di sette versi, con quattro endecasillabi e tre settenari. Ogni stanza registra al primo e al nono verso l’occorrenza della parola “Vergine”. Ancora il tredici compare nel passo del Convivio relativo agli anni della Vergine, per non parlare della distribuzione a gruppi di tredici delle anime nella Divina Commedia, come è stato analizzato da Robert L.John [30].

          Collegando il tempo della visione della canzone Donna pietosa e di novella etate, espresso secondo il terremoto di  84° 28' 27"-1'"  ,valori numerici della suddivisione della canzone, alla data della morte di Beatrice, 1290,6,8,ed  essendo questa avvenuta 73 mesi prima ( v. 73:  ch'io dicea: - Morte, assai dolce ti tegno; ) del tempo della visione, in cui si annuncia l'avvenuta morte della sua donna, si hanno tutti i dati per passare dal sistema cosmocronologico arcaico  a quello della nostra era e viceversa. Solo in  Dante, a differenza di altri autori, v'è questa corrispondenza[31]. Così è possibile trovare che la data del Natale è quella del 25 dicembre del 6 a.C.,( 63 mesi prima del primo plenilunio della nostra era), quella dell'Annunciazione, nove mesi lunari prima, corrisponde al 4 aprile. A queste medesime date si giunge, partendo dal tempo zero (- 4786.7 ± 0.01) proposto per la lettura del poema di Gilgames, da noi presentato nella relazione Il linguaggio del Sogno nella Cultura del Mito. La cosmologia arcaica dall'Epopea di Gilgames al mito greco di Apollo al convegno a Chiavari 5-7 dicembre 1984 [32].

          La morte di Beatrice è avvenuta sette anni (86.5 mesi) dopo il secondo incontro del poeta, quello in cui si narra del saluto. La morte di Muhammad, avvenuta  l' 8 giugno del 632, si trova pertanto situata rispetto al tempo del  saluto di Beatrice, esattamente 651 anni prima, cioè 8052 mesi lunari, esattamente  quel ciclo base che definisce Apollo. Non sappiamo se Dante fosse consapevole di questa circostanza né abbiamo ragioni per negarne la possibilità [33]. 

 

          Il riferimento di origine dei Fedeli d'Amore

 

          V’è poi una terza origine temporale, che interessa i fedeli d'Amore. Sotto questa espressione non è possibile identificare una specie di setta segreta di poeti[34], ma solo quei trovatori che sanno a che cosa corrisponda nella tradizione letteraria latina Amore, alias Cupido, alias Eros. Cupido è la stella che sta sotto la fronte del Toro, come è espressamente dichiarato da Manilio. E il suo arco , analogo a quello di Apollo, esprime metaforicamene il ciclo base per il calcolo delle longitudini del sole, identico al complemento della longitudine iniziale. Ciò significa che la tradizione letteraria colta indica i tempi di ciò che tratta a partire dal novilunio di primavera in cui Amore , l’”occhio del Toro”, segnava l’origine delle longitudini, distante da quell’altra origine, con l’equinozio nei Gemelli, esattamente il numero B di mesi lunari del ciclo associato alle frecce di Cupido.

          In altri termini, secondo una notazione letterale, avremo:

                                                To : a Tauri  = l°(0)

                                                Base del ciclo : 360° - l°(0)

                                                A anni solari = B mesi lunari

                                                Per DT° = 360° - l°(0)

                                                 a Tauri  = 0°

         

          Il sonetto Era venuta ne la mente mia , ad un anno esatto dalla morte di Beatrice, ha un doppio cominciamento per significare appunto il riferimento alle due origini temporali, a quella dell’Annunciazione, per la presenza del ciel de l’umiltate, ov’è Maria, e la seconda, al tempo di  origine segnato da Amore. Notevole e straordinaria è la differenza,espressa in mesi, tra i due tempi, essendo di 10,22,32;30 mesi. In questa successione numerica non si può fare a meno di ricordare le affermazioni  all’inizio dello Sefer Yezirah [35]:Dieci sephirot beli-mah e ventidue lettere fondamentali , costituenti i trentadue misteriosi sentieri di saggezza, nei quali ha scolpito Jahwe.  Se si potesse mostrare che Dante, tramite il suo amico ebreo  Emmanuele ben Salomon di Firenze[36]  ,di questo classico testo della tradizione ebraica ebbe notizia e da esso possibilità di accesso alle strutture numeriche dell’inizio e dell’ultimo capitolo, si avrebbe un tassello in più per la conoscenza delle fonti della sua cultura, illuminando non poco la genesi della sua scoperta e della sua opera.

 

          Minerva, Apollo e l'Orsa maggiore

         

          La terzina autoaffermante la propria originalità, è una delle più enigmatiche, con quel riferimento a Minerva, Apollo, le Muse e l’Orsa maggiore e al succcessivo “pan degli angeli”:

 

                                      L’acqua ch’io prendo già mai non si corse:

                                      Minerva spira, e conducemi Apollo,

                                      e nove Muse mi mostran l’Orse.

                                                                   (Paradiso, II,7-9)

          Questi versi forse possono essere compresi a partire dal termine della Vita Nuova, cioé dall’accenno ad una mirabile visione, il cui contenuto  spinge il poeta al proposito «di non dire più di questa benedetta» fino a tanto che egli «potesse più degnamente trattare» di Beatrice. Con l’augurio  che la sua anima possa un giorno «vedere la gloria della sua donna,(...) la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia saecula benedictus» termina la Vita Nuova, con il medesimo riferimento a Rom.I,25, col quale termina la Riconduzione delle arti alla teologia di S. Bonaventura: un opuscolo databile al 1255-57. Nella prospettiva di questo autore francescano, senza l’illuminazione che discende dall’Alto, cioè dal Padre della luce, secondo l’esplicito richiamo ad un passo della lettera di S.Giacomo, «ogni conoscenza è vana, dal momento che non si giunge mai al Figlio se non per mezzo dello Spirito santo, che ci insegna tutta la Verità  ed è benedetto nei secoli dei secoli.Amen»[37]. Questa coincidenza di riferimento potrebbe non essere significativa, tuttavia si può cercare altri punti in comune più decisivi e osservare come la lettura della Vita Nuova qui proposta si concilia con l'ipotesi che essa sia l'approfondimento di alcuni passi notevoli dell'opuscolo del mistico francescano. 

          Per la mirabile visione, che non può essere il disegno della Divina Commedia, è necessario, invece, vedere come si giunge alla presenza di Apollo in quell'opera. La visione del sonetto Oltre la spera si pone al tempo di 8601 mesi prima del Natale, mentre il tempo del sonettoVenite ad intender, per la sua suddivisione, si pone a 8601 mesi prima dell’Annunciazione, dopo che sono trascorsi 14,2,12 mesi dall’origine.

          Inaspettatamente abbiamo visto che il mito di Apollo,con il suo ciclo, si trova nel valore numerico che determina  Beatrice alias Sirio al tempo di origine e che per una permutazione nell’ordine delle sue cifre, espressione di un’arte della memoria, è legato al tempo dell’Annunciazione.

          Il rapporto enigmatico con l’Orsa maggiore è invece dichiarato nel Purgatorio in quei versi, riferiti a Beatrice:

 

                                      Sola sedeasi in su la terra vera,

                                      come guardia lasciata lì del plaustro,

                                      che legar vidi a la biforme fera.

                                                                   ( Purgatorio, XXXII,94-96)

          Il plaustro è il carro e generalmente negli autori latini significa l’Orsa maggiore. Affermare che Bearice sia guardiana dell’Orsa significa legare Sirio ad una sua stella e domandarsi il significato tecnico di questo rapporto.  Pensiamo che si debba vedere sotto questa stella, quella“ gentile donna giovane e bella molto, la quale da una finestra mi riguardava sì pietosamente” (Vita Nuova, XXXV). Il riferimento alla finestra fa pensare alle quattro stelle dell’Orsa maggiore, a,b,g,d che sono disposte ai vertici di un  rettangolo irregolare. In base alla  ricostruzione del catalago stellare della tradizione, derivata da una nuova lettura  della Vita Nuova, catalogo  cui allude Dante con “li nomi di sessante le più belle donne de la cittade” ( Vita Nuova,VI), si può vedere che al tempo in cui Sirio misurava tre volte la sua longitudine iniziale a Uma e z Uma erano con buona approssimazione rispettivamente a  60 e a 90 gradi. Il tempo di questa situazione è dato ovviamente da 2*8601 mesi. La terra vera, come terra emersa, è quel quadrato che congiunge i punti equinoziali e solstiziali e pertanto con quella espressione si fa un sintetico riferimento ad altre tre stelle, la cui longitudine sia di 0°,180° e 270°. Quale sia la tradizione riflessa in “Beatrice guardiana del Carro”,confessiamo di non sapere, tuttavia l’implicazione cosmologica dell’espressione somiglia stranamente, senza che Dante lo potesse sapere, alla rappresentazione nei soffitti astronomici di epoca ramesside o di Sethi I. Su queste enigmatiche rappresentazioni così si esprime Hertha von Dechend : “ In tutti i casi il piolo o palo di ormeggio sta nelle mani di Iside travestita da ippopotamo; al palo d’ormeggio è collegata una fune o una catena, all’altro capo della quale si trova Maskheti, la coscia del Toro, vale a dire il Gran Carro;”[38] . In uno dei testi si dice: “Quanto a questa coscia di Seth [l’Orsa maggiore], essa si trova nel cielo del nord, attaccata con una fune a due paletti di selce. E’ affidata a Iside, che la sorveglia in sembianza di ippopotamo femmina” perché non se ne vada “ nel cielo del sud verso l’acqua degli dei generati da Osiride, alle spalle di Orione (Brugsch,Thesaurus, p.122). Alle spalle di Orione, secondo la rappresentazione egizia, si trova l’Eridano che fluisce verso il sud. Se la fune o la catena  cui è legata l’Orsa è la longitudine di Sirio al To , allora è necessario cercare quali stelle sono più vicine agli equinozi e ai solstizi, rappresentati rispettivamente dal babbuino seduto sulla colonna-Djed (Orapollo; I,16) e dai cani seduti all’estremità (Clemente alessandrino, Stromata, V,7), nel tempo segnato da due volte (i due paletti) quella longitudine, cioè per

 

                    dt = 17202 mesi  [= 5,-(18-5),-18 mesi] 

si trova  che

                   b Eri ≈ 0° (- 5'), a Eri ≈ 270° (- 4');

                   e Sco ≈ 180° (-2'); z Uma ≈ 90° (+24') e a Uma ≈ 60° (- 9').

 

           Il tempo secondo la nostra cronologia è il plenilunio del 13 febbraio del 3396 a.C. E’ questa una semplice ipotesi che sottoponiamo a quegli studiosi dell’astronomia egizia che riconobbero che il problema è “più complesso di quanto sembri a prima vista” [39] .  Non sappiamo se questa sia la soluzione per  la rappresentazione egiziana , tuttavia ci pare implicata in ciò che Dante afferma con  Beatrice guardiana dell’Orsa maggiore sulla terra vera, indipendentemente dal riferimento alla cultura egizia.

           Al carro vide poi  legare il  grifone, cioè un leone con testa e ali di aquila, simboleggiante il Cristo. Legare il leone e l’aquila all’Orsa maggiore significa individuare una stella per ciascuna delle due costellazioni che segneranno con la loro longitudine sia il tempo della nascita che quello della morte di Cristo. Quali esse siano Dante non dice, lasciando alla sapienza del lettore la loro individuazione forse nelle visioni di altre terzine. E’ probabile che esse dipendano dai quattro animali presenti nella visione del trono del IV dell’Apocalisse: animali che sono rispettivamente simili al leone,al giovane vitello (=Toro), all’aquila e all’uomo.

 

          Prospettiva finale

               Il “secreto” dell’arcangelo è dunque la cifra simbolica (come anche il “saluto” di Beatrice) dell’esperienza culturale del poeta. Egli trovò il modo di collegare la storia della salvezza della tradizione cristiana ad un quadro cosmologico poeticamente e letterariamente costruito e comunicato secondo un’arte della memoria che non è più la nostra, applicando una tecnica di calcolo, analoga a quella di una cronologia astronomica, presente, nelle varie culture, nella tradizione  della sapienza arcaica. Dal mito di Apollo giunse, mediante la scrittura sessagesimale del suo ciclo, a cogliere con un  procedimento mnemo-tecnico, il tempo della nascita di Cristo e la funzione rivelatrice dell’arcangelo;  dalla scrittura del tempo dell’Annunciazione passò al mito di Apollo. A questa esperienza giunse, essendo nato nella fede cristiana, mediante lo studio della poesia latina e la lettura di testi, alcuni dei quali appartengono probabilmente alla tradizione ermetica  e forse anche a quella ebraica, come lo Sefer Yezirah. La frequentazione dei testi filosofici ,teologici, mistici ed astronomici fu la strada che dovette percorrere per poter dire nel contesto pubblico del tempo la sua scoperta, attendendosi  il ritorno al suo bel San Giovanni, un rinnovamento dell’Impero e, con questo, quello della Chiesa. Coniugando l’amore per le lettere con il desiderio di vedere Dio  - in questo  esprimeva più la tensione della cultura monastica del secolo precedente che quella della scolastica[40] - , la sua scrittura non scaturì in vista di  una perfezione formale di tipo umanistico, ma dalla volontà di trasmettere al crescente mondo laico, con il massimo di ricerca stilistica nell’idioma nativo, le innumerevoli vie che portano a quella bellezza che un giorno gli apparve e che divenne, per  studio, passione e dedizione ,il punto in cui la visione si fa storia, la profezia poesia, la scienza arte.

          Nella struttura del cosmo vide arditamente riflessa una incipiente analogia trinitaria, meglio una traccia, espressa nelle due corone intrecciate dei Beati del canto XIII del Paradiso. Tale analogia gli permise di non disgiungere cosmo e storia, mito e profezia, intrecciate nell’unico evento cosmico-storico, annunciato dall’arcangelo Gabriele. I beati, disposti su due corone, rispondenti ad una ben precisa struttura cosmografica, che Dante descrive tecnicamente, cantano appunto:

                                       Lì si cantò non Bacco, non Peana

                                      ma tre persone in divina natura

                                      e in una persona essa e l’umana

                                                                    (Paradiso XIII,25-27)

           Se qualcuno pensa che sia ardito mettere insieme mito e profezia, si ricordi che i magi, seguendo la loro stella giunsero alla grotta di Betlemme. Quella stella, col suo significato, centrale per loro, era qualcosa che apparteneva alla loro cultura e la tradizione patristica latina non avrebbe celebrato nell’Epifania la manifestazione del Salvatore ai Gentili; il che implica che i Gentili avevano nella loro tradizione culturale ciò che permetteva loro di riconoscere tale manifestazione. Questa stella è a Cma la cui longitudine al tempo zero, espressa in mesi e nel sistema sessagesimale, è 2,23,21 (= 2,14,12 + 9,9 = 8601).Il racconto evangelico di S.Matteo sui magi si trova nel capitolo II che consta di 23 versetti, con il ricordo dell'ordine di uccidere i bambini sotto i due anni.

           Nell’ opera di Dante tutte le tradizioni appaiono allora ritrovarsi  e la comprensione che egli ne ebbe può divenire anche una inaspettata fonte per noi, divenire quel sole che egli sperava che sorgesse, nel tramonto dell’ «usato sole», che ormai non splendeva più. Dante ci appare il massimo interprete delle tradizioni antiche e il massimo conoscitore dei loro codici culturali di comunicazione, che mostra di  applicare, secondo la nostra cultura, con una  libertà sconcertante. Quel sole promesso non sorse, purtroppo, nella nostra storia, anche, tra l'altro, per la frattura rappresentata dall’Umanesimo, con la scelta del latino come lingua colta, a differenza della proposta del "volgare illustre", aprendo così la strada alla crisi della modernità del XVII secolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Prof. Giovanni Ferrero

Storia del pensiero scientifico

Facoltà di Scienze della Formazione

Università Di Genova

C.so Montegrappa 39 - 16137 Genova

         

 

 

 

 



[1] Testo riveduto del seminario tenuto il 22 giugno 1995 presso la cattedra di Estetica del prof. Carlo Angelino alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Genova.Ringraziamo il prof.C.Angelino per  tale invito che ci ha permesso di comunicare e discutere in pubblico per la prima volta gli inconsueti risultati di una ricerca. Per i testi di Dante citiamo dalle seguenti edizioni: Vita Nuova, Introduzione di G.Petrocchi, Commento di M.Ciccuto, 2a  ediz.,Rizzoli Milano 1989; Convivio, a cura di G.Inglese, Rizzoli Milano 1993.

[2] Cfr. MARIA CORTI,Percorsi dell'invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Einaudi, Torino 1993, pag. 153.     

[3]Cfr.GIOVANNI FERRERO,La via della demone.Per lo studio sulla genesi e la struttura del poema di Parmenide, in La matematica delle civiltà arcaiche,di Livia Giacardi e Silvia Roero, Stampatori Torino 1979 pp.283-321

[4] Cfr. Appendice

[5] La Donna-Filosofia-Sapienza corrisponde sul piano cosmologico a b Andr. 10° 20' = q (=9) e p(=80)  lettere scritte sul vestito (per la corrispondenza delle lettere dell'alfabeto greco ai numeri cfr. NICOMACHUS OF GERASA,Introduction to arithmetic, a cura di M.L.D'Ooge,New York, The Macmillan Company,1926, Chapter IV, Greek arithmetical notation, pag.68) al  tempo segnato da a Tauri, alias Cupido  = 49° 18' 27" - 17'" = 525,5,8 ; con  L° sole = 48° 21' I valori numerici sono dati dal numero dei versi delle composizioni poetiche del primo libro dell'opera di Boezio. La comprensione di questa affermazione richiede il possesso completo della cosmologia arcaica, esposta in Appendice e la conoscenza dei tempi di riferimento delle varie tradizioni letterarie. Nel senso che preciseremo in seguito, a proposito dei Fedeli d'Amore, Boezio come poeta tardo-antico continua la tradizione letteraria latina, rappresentata ad esempio da Ovidio.

[6] SEVERINO BOEZIO, La consolazione della Filosofia. Gli Opuscoli Teologici, a cura di Luca Obertello, Rusconi, Milano 1979,pp.133-34. Il v. 13  può forse più propriamente significare che il giovane Boezio “da vincitore nei ritmi” cioè nelle gare poetiche ad Alessandria, esprimeva la posizione dei pianeti. Questo punto merita che si legga direttamente il testo  di Boezio, perché per quanto la traduzione  ne esprima il senso generale non si trova in essa la terminologia specifica:

                                                                                Hic quondam caelo liber aperto

                                                                                suetus in aetherios ire meatus

                                                                                cernebat rosei lumina solis,

                                                                                visebat gelidae sidera lunae

                                                                                Et quaecumque vagos stella recursus

                                                                                exercet varios flexa per orbes,

                                                                                comprensam numeris victor habebat.

                                                                                                                (De Consolatione,I,II,7-13)

[Boezio,] un tempo,libero nel cielo sconfinato, mentre era solito percorrere le vie dell’etere, distingueva le luci del roseo sole, osservava le costellazioni della gelida luna e qualunque pianeta, inclinato sulle diverse sfere,avesse tenuto erranti rivoluzioni,egli da vincitore le esprimeva con i numeri (o  con i metri).

 

[7] cfr. CHARLES S.SINGLETON,Saggio sulla ”Vita Nuova“, tr. it., Bologna, Il Mulino 1968, cap. secondo, Il libro della memoria, pp.39-75

[8] All’invettiva  contro costoro, il cui senso va ben oltre un dissenso letterario sulla eccellenza  di una lingua , è dedicato tutto il capitolo undicesimo del primo libro;  una vera e propria analisi ante litteram dei mali italiani, causati da “cinque abominevoli cagioni”: mancanza di discrezione e discernimento, ricerca di una giustificazione fraudolenta,desiderio di vanagloria, disprezzo per ciò che altri sanno e mostrano di eccellere, e infine viltà d’animo.

[9]                                                               Voi, che ‘ntendendo il terzo ciel movete,

                                                                udite il ragionar ch’è nel mio core,

                                                                ch’io nol so dire altrui, sì mi par novo;

                                                                                                                                (Convivio, II,I, 5,1-3)

[10] cfr. B.NARDI,Dante e la cultura medioevale, 2a ediz.,Bari, Laterza 1990, capitolo X. Cfr. S.BONAVENTURA,Itinerario della mente in Dio. Riconduzione delle Arti alla Teologia, tr. di Silvana Martignoni e Orlando Todisco, Introduzione di Letterio Mauro, città nuova Roma 1995, pag.53.

[11] Trovare le fonti di questo passo sarebbe un bel argomento per una tesi di laurea, dato che in esso vi è forse una allusione a Boezio, che, nel metro IX del terzo libro, in quella preghiera della Filosofia, così si esprime:                                                                                                                                                                                                                                                                                         Tu dall’alto

                                                                modello trai le cose, ed il bel mondo porti nella tua mente

                                                                (Boezio,DeConsolatione,III,IX,6-7; trad. Obertello)

 

                                                                                                                                                tu cuncta superno

                                                                Ducis ab exemplo; pulchrum pulcherrimus ipse

                                                                mundum mente gerens similique in imagine formans

                                                                                                                (Boetius, De Cons. ,III,IX,6-8)

 

e solo tre autori greci  registrano il nome Protonoè: Nonno,l’autore delle Dionisiache, Arpocrazione retore e Arpocrazione Alessandrino e il Thaesaurus Linguae Graeciae dello Stephanus non lo riporta.

 

[12]Secondo il Delambre (Histoire de l'Astronomie au Moyen Age, Paris 1819), il massimo storico dell’astronomia medioevale, che riassume il manuale arabo traendolo da una edizione del 1590, tutto il primo libro è copiato di pari passo da un altro astronomo arabo, Albattegnius, e per  il resto dipende quasi esclusivamente da Tolomeo. Il traduttore ebreo, Rabbi Jacob, invece, annota al termine di un’ ap-pendice sulla diversità dei giorni: Desinit totus hic liber laus Deo.

[13] cfr. B. Nardi, op.cit. pag.163

[14] La posizione  tradizionale della Chiesa latina è bene espressa da S. Agostino in un commento al Prologo del IV Vangelo (corsivo nostro): “si vultis pie et christiane vivere, haerete Christo secundum id quod pro nobis factus, ut perveniatis ad eum secundum id quod est, et secundum id quod erat. Accessit, ut pro nobis hoc fieret; quia hoc pro nobis factus est, ubi portentur infirmi, et mare saeculi transeant, et perveniant ad patriam; ubi iam naui non opus erit, quia nullum mare transitur. Melius est ergo non videre mente id quod est, et  tamen a Christi cruce non recedere, quam uidere illud mente, et crucem Christi contemnere. Bonum est super hoc et optimum, si fieri potest, ut et videatur quo eundum sit, et teneatur quo portetur qui pergit.” (S.A.Augustini, In Johannis Evangelium, II,3, 2-12). Quando questo passo si tradurrà  in strutture unicamente giuridiche, potenzialmente vi saranno  già le premesse per tragedie, come quella di Giordano Bruno. La posizione di S.Agostino, almeno come atteggiamento spirituale, si ritrova in S.Bonaventura a proposito della sapienza: "Dunque, o uomo di Dio, esèrcitati a percepire lo stimolo della coscienza che rimorde, prima di elevare gli occhi ai raggi della sapienza che rilucono in essa come in uno specchio, perché non avvenbga che questa speculazione troppo luminosa non ti abbagli e tu non abbia a cadere in un più profondo abisso di tenebre" (S.BONAVENTURA,op.cit.,pag.41)

[15] cfr. Appendice

[16]GIORGIO de SANTILLANA e HERTHA von DECHEND,Il mulino di Amleto.Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, tr.it., Adelphi Milano 1983

[17] Questa lettura dell'Apocalisse è indipendente dalla lettura di Dante e, in una certa misura, è quella che ci ha condotto a riprendere la lettura del poeta. Essa tenta di dare un modello interpretativo dei rapporti tra la tradizione sapienziale ebraica, l'apocalittica giudaica, che cerca precisamente di determinare la pienezza dei tempi o la fine dei tempi, e il testo dell'Apocalisse di Giovanni, che, in un primo e imperfetto scritto di qualche anno fa ( cfr. Le radici nascoste della civiltà europea, in "Lo Scrittoio",I,(1988) pp. 10-32) abbiamo già letto come la storia della salvezza secondo la storia del cosmo. Si osservi come [ 90° - (66° 24' 48") = 23° 35' 12" ] dia un valore assai prossimo dell'inclinazione dell'eclittica indicato da Dante sulla scorta di Al-Fargani.

[18] Dionigi il piccolo, a Roma sotto il papato di Atanasio II (496-98), nell'adottare il ciclo alessandrino di 19 anni (ciclo metonico) per il calcolo della Pasqua, estese per 95 anni le tavole pasquali di Cirillo di Alessandria che terminavano nel 531 e innovò l'uso della cronologia precendente  ab Urbe condita, introducendo l'uso di datare a nativitate Jesu, ma in ciò commise il noto errore cronologico.

[19] S.Bonaventura, op.cit. Ricond. arti  Teol. (20), pag.115.La filosofia naturale, cui allude S.Bonaventura, non è da ricercarsi nei commenti al De Coelo di Aristotele, ma in una miniatura  del Caedmon(Cfr. AA.VV,Il secolo dell'anno mille,tr.it., Milano Rizzoli 1974, fig.248, pag.248 inizio dell' XI secolo.Cfr Tav.1) relativa ai primi due versetti del Genesi, dalla quale risulta evidente che i due cerchi descritti sono rispettivamente i due paralleli di declinazione e di latitudine distanti 24° dai rispettivi poli. La figura di Cristo pantocratore si trova collocata  sul polo dell'eclittica, su quello che tecnicamente nella sapienza biblica si chiama trono di Dio. Poiché la filosofia naturale deve determinare a priori l'intervallo che va dall'A all'W , essendo il Natale alla fine dei tempi, non è possibile scrivere nessun tempo in giorni, mesi e anni, ma ciò che corrisponde al fluire del tempo. Mentre il cielo ruota attorno al suo polo, determinando giorno dopo giorno, mesi e anni, il polo stesso con moto lentissimo descrive un arco attorno al polo dell'eclittica, attorno cioè al trono di Dio. A questo lentissimo movimento  corrisponde analogicamente lo Spirito di Dio che aleggia sulle acque (Ruah Elohym) di Gen.I,2. Poichè il polo celeste si trova a 66° di latitudine, distante pertanto 24° dal trono, e i paralleli e i meridiani sono ripettivamente  24, allora quando il polo celeste avrà compiuto un arco di 66° 24' 48", allora sarà giunto il tempo dell'W, cioè del Natale. Nel sistema arcaico delle equivalenze, il medesimo tempo è dato dal lampo, la cui misura è 30;11,12,19 giorni e dal fulmine, la cui misura è 67;29,4,0 giorni con una strana corrispondenza alla distribuzione numerica dei canti della Divina Commedia, ricordando che i canti introduttivi sono quattro. La grandezza di Dante con la Vita Nuova è precisamente quella di aver individuato il tempo di inizio e di fornire l'informazione necessaria per passare da tale modo di esprimere il tempo, tipico della sapienza arcaica, al sistema cronologico dell'Era cristiana, con una modalità letteraria ed artistica,allora unica possibile, per comunicare una tale scoperta e il sapere per tale scoperta. Se poi questo sapere sia anche il sapere iniziatico ed esoterico dei Templari dipende dalle prove che si possono addurre in tali ricerche, dipende se chi sostiene una tale tesi sia in grado di mostrare che possiede il significato tecnico e non semplicemente allusivo e generico di tale sapere.Non è sufficiente rilevare, ad esempio, una relazione tra l'arcangelo Gabriele e l'arcangelo Michele, senza che contemporaneamente non sia detta la struttura tecnica di tale relazione, come non è sufficiente ricordare che per i Pitagorici la successione dei primi quattro numeri naturali è all'origine del divenire eterno della natura (Giuramento pitagorico) senza mai dire in che modo sia la legge di tale divenire per mostrare di possedere tale sapere che si dice esoterico e che si vuole che tale rimanga anche nelle mutate condizioni storiche e culturali di oggi in Occidente. Cfr. Appendice, formula (2) e (3). Poiché S.Bonaventura mostra di conoscere, applicandola, la  gnosi ortodossa cristiana, si pone il problema di ricercare attraverso quale tradizione ecclesiastica tale conoscenza gli sia giunta.

[20] cfr. RICHARD ELLIOTT FRIEDMAN,Chi ha scritto la Bibblia?, tr. it.,Torino Bollati Boringhieri 1991

[21] Cfr Singleton, op.cit, pag.64

[22] Cfr.Singleton, op.cit.,pag.29.

[23] Topos, questo, classico della tradizione ermetica sulle rivelazioni. cfr R.P.FESTUGIERE,La révélation d'Hermès Trismégiste,I,L'astrologie et les sciences occultes,Paris 1950,pag. 312 ssg.

[24] cfr L.DELATTE, Textes latins et vieux français relativfs aux Cyranides (Bibl.,Fac. Philos. et Lettres Univ. Lièges,93) 1942,Des Cyranides,I,17,18-18,9

[25] Applicando la (10bis) dell'Appendice si ottiene il corrispondente numero di mesi: 75225.4973 @ 75225.5

[26] L'occorrenza del termine "Morte" c'è già al v. 3, ma in questo caso non si riferisce a Beatrice, ma è in relazione alla Donna pietosa e di novella etate (...) ch'era là 'v'io chiamava spesso Morte. Ricordiamo che la tradizione ermetica chiama un determinato grado della costellazione dello Scorpione Mors. Non è possibile mostrare in questa sede tutti i riferimenti uranografici presenti nella canzone.Si può forse congetturare che Morte (= a Sco) è detta dolce perchè dista dal punto opposto a h Tau della medesima quantità che determina Sirio alias Beatrice al tempo di origine.

[27] Un indizio di riferimento alla tradizione ermetica si trova forse in Paradiso, XVIII, 82-93, con l'invocazione alla diva Pegasea del v.82.

[28] cfr R.P.FESTUGIERE,op.cit., pp.181-82.  Se si rammenta che  al secondo incontro Dante trova Beatrice con altre due donne più anziane di lei, e la rima dell’esilio Tre donne intorno al cor mi son venute, allora quel testo di un  astronomo arabo,attribuito ad Hermes, potrebbe essere una delle fonti di Dante, anche se le tres puellae associate ad Algomeisa, se sono le tre Grazie, non possono essere le tre donne di Dante. Per lo studio del De XV stellis rimandiamo alla magistrale analisi dello studioso francese (op.cit.,pp.160-186), anche se la prospettiva aperta dalla ricostruzione della cosmologia arcaica, suggerisce una diversa lettura della parte relativa alle longitudini delle stelle ivi presente. La direzione di ricerca, forse, non è tanto l'astronomia ellenistica e un ipotetico originale greco, quanto l'opera astronomica più importante della Persia pre-islamica, rappresentata dalle Tavole del re composte attorno al 555 d.C. e base dell'attività astronomica di Messalah, fiorito durante il regno di al-Mansur.Per notizie sull'astronomia araba cfr. SEYYED HOSSEIN NASR,Scienza e civiltà nell'Islam, Prefazione di Giorgio de Santillana,tr.it., Feltrinelli Milano 1977 pag.138 e ssg.

[29] cfr G.De SANTILLANA-HERTHA von DECHEND,Sirio,centro permanente dell'universo arcaico, in AA.VV.,Eternità e storia,Vallecchi editore Firenze 1970, pp.391-412. L'etimologia fornita da Plutarco (De Iside,61) non è seguita dagli egittologi,ma è un indizio culturale per identificare il grande segno nel cielo della mulier amicta sole con a Cma.

[30]Cfr. ROBERT L. JOHN,Dante templare, tr.it.,Hoepli Milano 1987, pp.207-234.

 

[31] I §§ 2 e 3 del Prologo dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura (op.cit.,39-40) potrebbero, ad una più attenta lettura, rivelarsi decisivi. Infatti  per DT° = 17° 33' 10" - 3'" dal 25,12, 6 a.C. si ottiene il plemilunio del 3,10,1259, 33 anni dopo la morte di S. Francesco, 3,10,1226. S.Francesco ebbe le stimmate il 17,9,1224. Si noti che 1224:72 = 17°. Con le sei ali del serafino c'è il riferimento al profeta Isaia e la successione (§ 3): 6 ali, 6 gradi, 2 anni, 6 ali, 6 gradi permette di scrivere la successione 12,2,14, che in modo speculare individua il tempo in cui situare Isaia XI rispetto al tempo dell'Annunciazione. Se così fosse la Vita Nuova risulterebbe la forma letteraria, nel quadro delle tradizioni culturali, di quella sapienza  cristiana di cui parla il francescano (op.cit.,pag.40).

[32] cfr. Segno simbolo sintomo comunicazione. Implicanze e convergenze fra Filosofia Psichiatria Psicoanalisi, Atti del convegno a cura di A.Dentone e M.Schiavone, Esagraph,Genova 1985, pag.283.

[33] Rileviamo come già nella Canzone di Orlando Apollo sia accostato al nome del profeta Muhammad: v. 8, Mahummet sert e Apollin recleimet:/serve Maometto e Apollo prega e chiama; e ai vv. 2696-97 e vv 2711-12: La Canzone di Orlando, a cura di Mario Bensi, Introduzione di Cesare Segre, Trad. di Renzo lo Cascio, Testo antico francese a fronte, 2a ediz., Rizzoli Milano 1993. Per l'implicazione cosmologica del mito di Apollo rimandiamo sia allo scritto sull'Apocalisse (op.cit. pp.11-13 che a Il concetto di "natura" nel pensiero arcaico in "Il Contributo" (1990) XIV,1, pp. 3-21.

[34] La tesi  di Luigi Valli (Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d'Amore»,Milano,Luni Editrice, 2a edizione, 1994) manca proprio nella ricostruzione del gergo, non considerando che Amore è un dio pagano connesso ad una stella, la cui funzione Esiodo e Parmenide, Ovidio e Boezio e Dante sapevano,come mostra di sapere l'autore arabo del De XV stellis  : Quando a Tauri misura 50° 50' ci si trova , rispetto all'inizio della cronologia araba  del 622,IX,25, al novilunio posteriore 1/60 del  tempo in mesi che determina all'origine  Hermes-Thoth-En-Ki. In altri termini: a Tauri = 50° 50' = To + 154.5 mesi, oppure, dopo 3660 anni (1,1,0) dall'inizio, quando la stella determinava l'origine, sono passati 154.5 mesi dal plenilunio del 622,IX,25.

[35]cfr. Sefer Yezirah (Il libro della creazione) Trad. dall'ebraico, Prefazione e note di Gadiel Toaff, Carucci editore Roma1979; oppure Sefer Yesirah, Il libro della formazione, in Mistica Ebraica, a cura di Giulio Busi ed Elena Loewental, Einaudi Torino 1995, pag.35

[36] cfr R.L.John ,op. cit., pag.352

[37] cfr.S.Bonaventura, op.cit.,pag.118

[38] cfr.G.de Santillana-Hertha von Dechend, Il mulino..,op.cit.,pp 468-69

[39] cfr O.NEUGEBAUER & R.A.PARKER,Egyptian astronomical texts II. The Ramesside star clocks,Brown University Press 1964,p.7.

[40] J.LECLERCQ,L'amour des lettres & le désir de Dieu,Les Editions du Cerf, Paris 1958

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